martedì 3 maggio 2022

INTERVENTO DI MARIO DRAGHI AL PARLAMENTO EUROPEO DI STRASBURGO DEL 3 MAGGIO 2022

 

 

Presidente Metsola,
Deputate e deputati, 
Care cittadine e cari cittadini, 

Sono davvero felice di essere qui, nel cuore, nella culla della democrazia europea.
Voglio prima di tutto rendere omaggio alla memoria di David Sassoli, che ha presieduto il Parlamento Europeo in anni difficilissimi.
Durante la pandemia, il Parlamento ha continuato a riunirsi, discutere, decidere, a testimonianza della sua vitalità istituzionale e della guida di Sassoli.
Sassoli non ha mai smesso di lavorare a quello che definì nel suo ultimo discorso al Consiglio Europeo, un “nuovo progetto di speranza” per “un’Europa che innova, che protegge, che illumina”.
Questa visione di Europa è oggi più necessaria che mai.
Ringrazio la Presidente Metsola e voi tutti per il vostro contributo a portarla avanti, a portare avanti questa idea ogni giorno.
 
La guerra in Ucraina pone l’Unione Europea davanti a una delle più gravi crisi della sua storia.
Una crisi che è insieme umanitaria, securitaria, energetica, economica.
E che avviene mentre i nostri Paesi sono ancora alle prese con le conseguenze della maggiore emergenza sanitaria degli ultimi cento anni.
La risposta europea alla pandemia è stata unitaria, coraggiosa, efficace.
La ricerca scientifica ci ha consegnato, con una rapidità senza precedenti, vaccini capaci di frenare il contagio, di abbattere in modo drastico la severità della malattia.
Abbiamo organizzato la più imponente campagna di vaccinazione della storia recente, che ci ha permesso di salvare vite, riportare i ragazzi e le ragazze a scuola, far ripartire l’economia.
Abbiamo approvato il Next Generation EU, il primo grande progetto di ricostruzione europea, finanziato con il contributo di tutti, per venire incontro alle esigenze di ciascuno.
La stessa prontezza e determinazione, lo stesso spirito di solidarietà, ci devono ora guidare nelle sfide che abbiamo davanti.
 
Le istituzioni che i nostri predecessori hanno costruito negli scorsi decenni hanno servito bene i cittadini europei, ma sono inadeguate per la realtà che ci si manifesta oggi.
La pandemia e la guerra hanno chiamato le istituzioni europee a responsabilità mai assunte fino ad ora.
Il quadro geopolitico è in rapida e profonda trasformazione.
Dobbiamo muoverci, muoverci con la massima celerità.
E dobbiamo assicurarci che la gestione delle crisi che viviamo non ci porti al punto di partenza, ma permetta una transizione verso un modello economico e sociale più giusto, più sostenibile.
Abbiamo bisogno di un federalismo pragmatico, che abbracci tutti gli ambiti colpiti dalle trasformazioni in corso – dall’economia, all’energia, alla sicurezza. Ho parlato di un federalismo pragmatico ma devo aggiungere che mai come ora i nostri valori europei di pace, di solidarietà, di umanità, hanno bisogno di essere difesi. E mai come ora questa difesa è per i singoli stati difficile, e diventerà sempre più difficile. Abbiamo bisogno non solo di un federalismo pragmatico ma di un federalismo ideale. 
Se ciò richiede l’inizio di un percorso che porterà alla revisione dei Trattati, lo si abbracci con coraggio e con fiducia. 
Se dagli eventi tragici di questi anni sapremo trarre la forza di fare un passo avanti;
Se sapremo immaginare un funzionamento più efficiente delle istituzioni europee che permetta di trovare soluzioni tempestive ai problemi dei cittadini;
Allora potremo consegnare loro un’Europa in cui potranno riconoscersi con orgoglio.
 
L’aggressione dell’Ucraina da parte della Russia ha rimesso in discussione la più grande conquista dell’Unione Europea: la pace nel nostro continente.
Una pace basata sul rispetto dei confini territoriali, dello stato di diritto, della sovranità democratica; 
una pace basata sull’utilizzo della diplomazia come mezzo di risoluzione delle crisi tra Stati;
una pace basata sul rispetto dei diritti umani, oltraggiati a Mariupol, a Bucha, e in tutti i luoghi in cui si è scatenata la violenza dell’esercito russo nei confronti di civili inermi.
Dobbiamo sostenere l’Ucraina, il suo governo e il suo popolo, come il Presidente Zelensky ha chiesto e continua a chiedere di fare.
In una guerra di aggressione non può esistere alcuna equivalenza tra chi invade e chi resiste.
Vogliamo che l’Ucraina resti un Paese libero, democratico, sovrano.
Proteggere l’Ucraina vuol dire proteggere noi stessi, vuol dire proteggere il progetto di sicurezza e democrazia che abbiamo costruito insieme negli ultimi settant’anni.
 
Aiutare l’Ucraina vuol dire soprattutto lavorare per la pace.
La nostra priorità è raggiungere quanto prima un cessate il fuoco, per salvare vite e consentire quegli interventi umanitari a favore dei civili che oggi sono, restano, ancora molto difficili.
Una tregua darebbe anche nuovo slancio ai negoziati, che finora non hanno raggiunto i risultati sperati.
L’Europa può e deve avere un ruolo centrale nel favorire il dialogo.
Dobbiamo farlo per via della nostra geografia, che ci colloca accanto a questa guerra, e dunque in prima linea nell’affrontare tutte le sue possibili conseguenze.
Dobbiamo farlo per via della nostra storia, che ci ha mostrato capaci di costruire una pace stabile e duratura, anche dopo conflitti sanguinosi.
L’Italia, come Paese fondante dell’Unione Europea, come Paese che crede profondamente nella pace, è pronta a impegnarsi in prima linea per raggiungere una soluzione diplomatica.
 
Già oggi la guerra sta avendo un impatto profondo sui nostri Paesi.
Dall’inizio del conflitto, circa 5,3 milioni di persone hanno lasciato l’Ucraina verso l’Unione europea – soprattutto donne e bambini.
È più del doppio del numero di rifugiati presenti nell’Unione alla fine del 2020 - circa 2,5 milioni.
L’Italia crede nei valori europei dell’accoglienza e della solidarietà.
Abbiamo accolto oltre 105.000 rifugiati ucraini, grazie alla generosità delle famiglie, dei volontari, delle organizzazioni non governative – a cui va il mio più profondo ringraziamento.
Altri Paesi – tra cui Polonia, Romania, Germania, Slovacchia – hanno fatto sforzi ancora maggiori.
Molti rifugiati vogliono tornare presto a casa e alcuni hanno già iniziato a farlo.
Tuttavia, non sappiamo in che modo evolverà il conflitto, né quanto durerà.
Dobbiamo essere pronti a dare continuità al nostro slancio iniziale perché i rifugiati ucraini si integrino al meglio nelle nostre società.
 
Dal punto di vista economico, il conflitto ha causato instabilità nel funzionamento delle catene di approvvigionamento globali e volatilità nel prezzo delle materie prime e dell’energia.
Le forniture alimentari ucraine sono crollate a causa delle devastazioni della guerra e dei blocchi alle esportazioni imposti dalla Russia nei porti del Mar Nero e del Mar d’Azov.
L’Ucraina è il quarto maggiore fornitore estero di cibo nell’Unione Europea – ci invia circa metà delle nostre importazioni di granoturco, un quarto dei nostri oli vegetali.
Russia e Ucraina contano per oltre un quarto delle esportazioni globali di grano.
Quasi 50 Paesi del mondo dipendono da loro per più del 30% delle loro importazioni.
A marzo, i prezzi dei cereali e delle principali derrate alimentari hanno toccato i massimi storici.
C’è un forte rischio che l’aumento dei prezzi, insieme alla minore disponibilità di fertilizzanti, produca crisi alimentari.
Secondo la FAO, 13 milioni di persone in più potrebbero soffrire la fame tra il 2022 e il 2026 a causa della guerra in Ucraina.
Molti Paesi, soprattutto dell’Africa e del Medio Oriente, sono più vulnerabili a questi rischi e potrebbero vivere periodi di instabilità politica e sociale.
Non possiamo permettere che questo accada.
Il nostro impegno, attraverso le banche di sviluppo e le istituzioni finanziare multilaterali, e il nostro impegno su base bilaterale deve essere massimo.
 
Per quanto riguarda l’energia, il prezzo del greggio, che tra dicembre e gennaio oscillava tra i 70 e i 90 dollari al barile, si aggira oggi intorno ai 105 dopo un picco di 130 dollari a marzo.
Il prezzo del gas sul mercato europeo è intorno ai 100 euro per megawattora - circa cinque volte quello di un anno fa.
Questi aumenti – che seguono i rincari che si osservavano già prima dell’inizio del conflitto – hanno spinto il tasso d’inflazione su livelli che non si vedevano da decenni.
Nell’eurozona, l’indice dei prezzi è cresciuto del 7,5% ad aprile rispetto a un anno fa, e sta avendo un impatto significativo sul potere d’acquisto delle famiglie e sui livelli di produzione delle imprese.
L’economia europea è in una fase di rallentamento: nei primi tre mesi del 2022, il prodotto interno lordo nella zona euro è cresciuto dello 0,2% rispetto all’ultimo trimestre del 2021.
Il Fondo Monetario Internazionale prevede che l’Unione Europea crescerà quest’anno del 2,9%, rispetto al 4% stimato fino a poco tempo fa.
 
Ciascuna di queste crisi richiederebbe una reazione forte da parte dell’Unione Europea.
La loro somma ci impone un’accelerazione decisa nel processo di integrazione.
Nei prossimi mesi dobbiamo mostrare ai cittadini europei che siamo in grado di guidare un’Europa all’altezza dei suoi valori, della sua storia, del suo ruolo nel mondo.
Un’Europa più forte, coesa, sovrana - capace di prendere il futuro nelle proprie mani, come disse qualche tempo fa la cancelliera Merkel.
 
Negli ultimi 75 anni, l’integrazione europea è stata spesso la migliore risposta – pratica e ideale - alle sfide comuni.
I padri fondatori dell’Unione Europea intuirono che lo sviluppo economico e il progresso sociale erano difficili da realizzare soltanto tramite le risorse dei singoli Stati nazionali.
Individuarono nel modello sovrannazionale l’unico capace di unire gli interessi dei popoli europei e di esercitare influenza su eventi che altrimenti sarebbero stati fuori dalla loro portata.
L’integrazione ha seguito un processo graduale, fatto di crisi e rilanci, di successi ottenuti malgrado divisioni interne e, talvolta, di fronte a resistenze esterne.
Un risultato costruito “pezzo per pezzo, settore per settore”, per citare Robert Schuman, poiché l’Unione Europea non poteva nascere “di getto, come una città ideale”.
 
Ai traumi della Seconda Guerra Mondiale, l’Europa ha risposto con la creazione delle prime istituzioni per la cooperazione economica.
Penso all’Unione Europea dei pagamenti, che favorì il ritorno alla stabilità delle monete e la ripresa degli scambi commerciali.
O alla Comunità Economica del Carbone e dell’Acciaio, che abolì le barriere doganali e altri impedimenti alla libera circolazione delle merci in settori cruciali dell’economia.
Le tensioni geopolitiche nate con la crisi di Suez nel ‘56 contribuirono ad accelerare il percorso verso i Trattati di Roma.
Di fronte al crollo del sistema di Bretton Woods nel ‘71, i Paesi europei reagirono con l’istituzione del serpente monetario e poi del Sistema Monetario Europeo.
Al crescente euroscetticismo degli anni ‘80, risposero con i programmi di interventi mirati proposti dalla Commissione Delors e con l’Atto Unico del 1986.
Alla fine dell’Unione Sovietica e alla riunificazione della Germania, l’Europa fece seguire la firma del Trattato di Maastricht, la creazione dell’Unione monetaria e, infine, l’allargamento a Est dell’Unione Europea.
La crisi dell’eurozona nei primi anni dello scorso decennio ha portato a un rafforzamento e a una modernizzazione delle istituzioni economiche, a partire dalla Banca Centrale Europea.
La pandemia, come ho ricordato in precedenza, ci ha uniti e ha portato alla creazione del Next Generation EU. 
Questo lungo cammino di integrazione ha cambiato le nostre vite per il meglio, perché ci ha dato pace, prosperità, e un modello sociale di cui essere fieri.
Il mercato unico non ha soltanto rilanciato l’economia europea in un momento di difficoltà, ma ha assicurato tutele per consumatori, per lavoratori, e forme di previdenza sociale uniche al mondo.
Abbiamo costruito istituzioni democratiche comuni, come questo Parlamento, in cui raggiungere decisioni condivise e con cui far valere il rispetto dei diritti fondamentali.
Abbiamo reso l’Unione Europea uno spazio non solo economico, ma di difesa dei diritti e della dignità dell’uomo.
È un’eredità che non dobbiamo dissipare, di fronte alla quale non possiamo arretrare.
Ora è il momento di portare avanti questo percorso.
Il 9 maggio si conclude la Conferenza sul Futuro dell’Europa e la Dichiarazione finale ci chiede di essere molto ambiziosi.
Vogliamo essere in prima linea per disegnare questa nuova Europa.
 
In un quadro geopolitico divenuto improvvisamente molto più pericoloso e incerto, dobbiamo affrontare l’emergenza economica e sociale e garantire la sicurezza dei nostri cittadini.
Gli investimenti nella difesa devono essere fatti nell’ottica di un miglioramento delle nostre capacità collettive – come Unione Europea e come Nato.
L’ultimo Consiglio Europeo ha preso una decisione importante con l’approvazione della “Bussola Strategica”, che dobbiamo attuare con rapidità.
Occorre però andare velocemente oltre questi primi passi e costruire un coordinamento efficace fra i sistemi della difesa.
La nostra spesa in sicurezza è circa tre volte quella della Russia, ma si divide in 146 sistemi di difesa.
Gli Stati Uniti ne hanno solo 34.
È una distribuzione di risorse profondamente inefficiente, che ostacola la costruzione di una vera difesa europea.
L’autonomia strategica nella difesa passa prima di tutto attraverso una maggiore efficienza della spesa militare in Europa.
È opportuno convocare una conferenza per razionalizzare e ottimizzare i nostri investimenti in spesa militare.
Inoltre, la costruzione di una difesa comune deve accompagnarsi a una politica estera unitaria, e a meccanismi decisionali efficaci.
Dobbiamo superare il principio dell’unanimità, da cui origina una logica intergovernativa fatta di veti incrociati, e muoverci verso decisioni prese a maggioranza qualificata.
Un’Europa capace di decidere in modo tempestivo, è un’Europa più credibile di fronte ai suoi cittadini e di fronte al mondo.
 
 
Una prima accelerazione deve riguardare il processo di allargamento.
La piena integrazione dei Paesi che manifestano aspirazioni europee non rappresenta una minaccia per la tenuta del progetto europeo.
È parte della sua realizzazione.
L’Italia sostiene l’apertura immediata dei negoziati di adesione con l’Albania e con la Macedonia del Nord, in linea con la decisione assunta dal Consiglio Europeo nel marzo 2020.
Vogliamo dare nuovo slancio ai negoziati con Serbia e Montenegro, e assicurare la massima attenzione alle legittime aspettative di Bosnia Erzegovina e Kosovo.
Siamo favorevoli all’ingresso di tutti questi Paesi e vogliamo l’Ucraina nell’Unione Europea.
Dobbiamo seguire il percorso d’ingresso che abbiamo disegnato, ma dobbiamo anche procedere il più speditamente possibile.
 
La solidarietà mostrata verso i rifugiati ucraini deve poi spingerci verso una gestione davvero europea anche dei migranti che arrivano da altri contesti di guerra e di sfruttamento.
Più in generale, è necessario definire un meccanismo europeo efficace di gestione dei flussi migratori, che superi la logica del Trattato di Dublino.
Dobbiamo rafforzare e rendere davvero efficaci gli accordi di rimpatrio, ma dobbiamo anche rafforzare i canali legali di ingresso nell’Unione Europea.
In particolare, dobbiamo prestare maggiore attenzione al Mediterraneo, vista la sua collocazione strategica come ponte verso l’Africa e il Medio Oriente.
Non possiamo guardare al Mediterraneo solo come un’area di confine, su cui ergere barriere.
Sul Mediterraneo si affacciano molti Paesi giovani, pronti a infondere il proprio entusiasmo nel rapporto con l’Europa.
Con essi, l’Unione Europea deve costruire un reale partenariato non solo economico, ma anche politico e sociale.
Il Mediterraneo deve essere un polo di pace, di prosperità e di progresso.
 
La politica energetica è un’area in cui i Paesi del Mediterraneo devono – e possono – giocare un ruolo fondamentale per il futuro dell’Europa.
L’Europa ha davanti un profondo riorientamento geopolitico destinato a spostare sempre di più il suo asse strategico verso il Sud.
La guerra in Ucraina ha mostrato la profonda vulnerabilità di molti dei nostri Paesi nei confronti di Mosca.
L’Italia è uno degli Stati membri più esposti: circa il 40% del gas naturale che importiamo proviene infatti dalla Russia.
E non abbiamo carbone, non abbiamo energia nucleare, non abbiamo – o quasi non abbiamo – petrolio.
Una simile dipendenza energetica è imprudente dal punto di vista economico, e pericolosa dal punto di vista geopolitico.
L’Italia intende prendere tutte le decisioni necessarie a difendere la propria sicurezza e quella dell’Europa.
Abbiamo appoggiato le sanzioni che l’Unione Europea ha deciso di imporre nei confronti della Russia, anche quelle nel settore energetico.
Continueremo a farlo con la stessa convinzione in futuro.
 
Nelle scorse settimane ci siamo mossi con la massima celerità e determinazione per diversificare le nostre forniture di gas.
E abbiamo preso importanti provvedimenti di semplificazione per accelerare la produzione di energia rinnovabile, essenziale per rendere la nostra crescita più sostenibile.
La riduzione delle importazioni di combustibili fossili dalla Russia rende inevitabile che l’Europa guardi verso il Mediterraneo per soddisfare le proprie esigenze.
Mi riferisco ai giacimenti di gas, come combustibile di transizione, ma soprattutto alle enormi opportunità offerte dalle rinnovabili in Africa e in Medio Oriente.
I Paesi del sud Europa, e l’Italia in particolare, sono collocati in modo strategico per raccogliere questa produzione energetica e fare da ponte verso i Paesi del nord.
La nostra centralità di domani passa dagli investimenti che sapremo fare oggi.
 
Allo stesso tempo, dobbiamo trovare subito soluzioni per proteggere le famiglie e le imprese dai rincari del costo dell’energia.
Moderare le bollette e il prezzo dei carburanti è anche un modo per rendere eventuali sanzioni più sostenibili nel tempo.
Sin dall’inizio della crisi, l’Italia ha chiesto di mettere un tetto europeo ai prezzi del gas importato dalla Russia.
La Russia vende all’Europa quasi due terzi delle sue esportazioni di gas naturale – in larga parte tramite gasdotti che non possono essere riorientati verso altri acquirenti.
La nostra proposta consentirebbe di utilizzare il nostro potere negoziale per ridurre i costi esorbitanti che oggi gravano sulle nostre economie.
Allo stesso tempo, questa misura consentirebbe di diminuire le somme che ogni giorno inviamo al Presidente Putin, e che inevitabilmente finanziano la sua campagna militare.
 
Vogliamo poi rivedere in modo strutturale il meccanismo di formazione del prezzo dell’elettricità, che dipende dal costo di produzione della fonte di energia più costosa, che di solito è il gas.
Anche in tempi normali, la generazione di energia da fonti fossili ha infatti costi di produzione maggiori di quella da fonti rinnovabili.
Si tratta di un problema destinato a peggiorare nel tempo.
Con l’aumento progressivo della quota di energia rinnovabile nel nostro mix energetico, avremo prezzi sempre meno rappresentativi del costo di generazione dell’intero mercato, se continuiamo ad avere questo sistema.
In questo periodo di fortissima volatilità sul mercato del gas, la differenza di prezzo è spropositata.
I rincari sul mercato del gas si sono riversati su quello dell’energia elettrica, sebbene il costo di produzione delle rinnovabili, da cui ormai otteniamo una parte consistente di energia, sia rimasto molto basso.
In Italia, nei primi quattro mesi di quest’anno, il prezzo dell’elettricità è quadruplicato rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, con un impatto durissimo sull’economia.
Il governo italiano ma anche gli altri governi hanno reagito con forza per tutelare imprese e famiglie, soprattutto quelle più deboli.
L’Italia, da sola, ha speso circa 30 miliardi di euro, solo quest’anno.
La gestione emergenziale di questi rincari ha molti limiti, primo fra tutti la sostenibilità per il bilancio pubblico.
Il problema è sistemico e va risolto con soluzioni strutturali, che spezzino il legame tra il prezzo del gas e quello dell’elettricità.
Il problema del costo dell’energia sarà al centro del prossimo Consiglio Europeo.
C’è bisogno di decisioni forti e immediate, a vantaggio di tutti i cittadini europei.
 
Le diverse crisi che derivano dal conflitto in Ucraina arrivano in un momento in cui l’Europa aveva già davanti a sé esigenze di spesa enormi.
La transizione ecologica e quella digitale ci impongono investimenti indifferibili.
A questi vanno aggiunti i costi della guerra, che dobbiamo affrontare subito, per evitare che il nostro continente sprofondi in una recessione.
In entrambi i casi si tratta di costi asimmetrici, che colpiscono fasce della popolazione e settori produttivi in modo diverso, e che dunque richiedono diverse misure di compensazione.
Nessun bilancio nazionale è in grado di sostenere questi sforzi da solo.
Nessun Paese può essere lasciato indietro.
Ne va della pace sociale nel nostro continente, della nostra capacità di sostenere le sanzioni, soprattutto in quei Paesi che per ragioni storiche sono maggiormente dipendenti dalla Russia.
L’Unione Europea ha già ideato alcuni strumenti utili per governare queste sfide.
Si tratta delle risposte che abbiamo messo in campo durante la pandemia e che hanno assicurato all’Unione Europea una ripresa economica rapida e diffusa.
Dobbiamo partire da questo successo, e adattare questi stessi strumenti alle circostanze che abbiamo davanti.
Lo SURE – lo strumento europeo di sostegno temporaneo per attenuare i rischi di disoccupazione in un’emergenza – ha concesso prestiti agli Stati membri per sostenere il mercato del lavoro.
L’Unione Europea dovrebbe ampliarne la portata, per fornire ai Paesi che ne fanno richiesta nuovi finanziamenti per attenuare l’impatto dei rincari energetici.
Mi riferisco a interventi di riduzione delle bollette, ma anche al sostegno temporaneo ai salari più bassi, per esempio – come abbiamo fatto ieri – con misure di decontribuzione per i salari più bassi.
Queste hanno il vantaggio di difendere il potere di acquisto delle famiglie, soprattutto le più fragili.
Il ricorso a un meccanismo di prestiti come SURE consentirebbe di evitare l’utilizzo di sovvenzioni a fondo perduto per pagare misure nazionali di spesa corrente.
Allo stesso tempo, in una fase di rialzo dei tassi d’interesse, fornirebbe agli Stati membri con le finanze pubbliche più fragili un’alternativa meno cara rispetto all’indebitamento sul mercato.
Potremmo così ampliare la portata degli interventi di sostegno e allo stesso tempo limitare il rischio di instabilità finanziaria.
Si tratta di una misura che dovrebbe essere messa in campo in tempi ormai molto rapidi – perché sono otto, nove, dieci mesi che siamo in questa situazione – per permettere ai governi di intervenire subito a sostegno dell’economia.
Per quanto riguarda gli investimenti di lungo periodo in aree come la difesa, l’energia, la sicurezza alimentare e industriale, il modello è quello del Next Generation EU.
Il sistema di pagamenti scadenzati, legati a verifiche puntuali nel raggiungimento degli obiettivi, offre un meccanismo virtuoso di controllo della qualità della spesa.
Spendere bene le risorse che ci vengono assegnate è fondamentale per la nostra credibilità davanti ai cittadini e davanti agli altri partner europei, che come ho detto molte volte hanno accettato di tassare i loro cittadini per poter aiutare l’Italia e altri Paesi che hanno utilizzato questi grants.
Il buon governo non è limitarsi a rispondere alle crisi del momento.
È muoversi subito per anticipare quelle che verranno.
I padri dell’Europa ci hanno mostrato come rendere efficace la democrazia nel nostro continente nelle sue progressive trasformazioni.
L’integrazione europea è l’alleato migliore che abbiamo per affrontare le sfide che la storia ci pone davanti.
Oggi, come in tutti gli snodi decisivi dal dopoguerra in poi, servono determinazione, visione, ma soprattutto unità.
Sono sicuro che sapremo trovarle ancora una volta, insieme.
Grazie.

 

 

riferimento

 https://www.governo.it/it/articolo/intervento-del-presidente-draghi-al-parlamento-europeo/19741

venerdì 30 aprile 2021

MATERIALI PER ESAMI DI LINGUA ITALIANA

 https://languageadvisor.net/category/language/italian-language-resources/page/3/

martedì 27 aprile 2021

DISCORSO INTEGRALE DEL PREMIER DRAGHI DEL 26 APRILE 2021

 

Il testo integrale del discorso del presidente del Consiglio Mario Draghi per la presentazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza tenuto alla Camera.

Signor Presidente, Onorevoli Deputati,

Sbaglieremmo tutti a pensare che il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, pur nella sua storica importanza, sia solo un insieme di progetti tanto necessari quanto ambiziosi, di numeri, obiettivi, scadenze.

Vi proporrei di leggerlo anche in un altro modo. Metteteci dentro le vite degli italiani, le nostre ma soprattutto quelle dei giovani, delle donne, dei cittadini che verranno. Le attese di chi più ha sofferto gli effetti devastanti della pandemia. Le aspirazioni delle famiglie preoccupate per l’educazione e il futuro dei propri figli. Le giuste rivendicazioni di chi un lavoro non ce l’ha o lo ha perso. Le preoccupazioni di chi ha dovuto chiudere la propria attività per permettere a noi tutti di frenare il contagio. L’ansia dei territori svantaggiati di affrancarsi da disagi e povertà. La consapevolezza di ogni comunità che l’ambiente va tutelato e rispettato. Ma, nell’insieme dei programmi che oggi presento alla vostra attenzione, c’è anche e soprattutto il destino del Paese. La misura di quello che sarà il suo ruolo nella comunità internazionale. La sua credibilità e reputazione come fondatore dell’Unione europea e protagonista del mondo occidentale. Non è dunque solo una questione di reddito, lavoro, benessere, ma anche di valori civili, di sentimenti della nostra comunità nazionale che nessun numero, nessuna tabella potranno mai rappresentare.

Dico questo perché sia chiaro che, nel realizzare i progetti, ritardi, inefficienze, miopi visioni di parte anteposte al bene comune peseranno direttamente sulle nostre vite. Soprattutto su quelle dei cittadini più deboli e sui nostri figli e nipoti. E forse non vi sarà più il tempo per porvi rimedio. Nel presentare questo documento, al quale è strettamente legato il nostro futuro, vorrei riprendere, specie all’indomani della celebrazione del 25 aprile, una testimonianza di uno dei padri della nostra Repubblica.

Scriveva Alcide De Gasperi nel 1943: “Vero è che il funzionamento della democrazia economica esige disinteresse, come quello della democrazia politica suppone la virtù del carattere.
L’opera di rinnovamento fallirà, se in tutte le categorie, in tutti i centri non sorgeranno degli uomini disinteressati pronti a faticare e a sacrificarsi per il bene comune”. A noi l’onere e l’onore di preparare nel modo migliore l’Italia di domani.

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Prima di concentrarmi sulla descrizione del Piano, vorrei ringraziarvi per il prezioso lavoro di interlocuzione con Istituzioni e Parti sociali svolto dal Parlamento. La buona riuscita del Piano richiede uno sforzo corale delle diverse istituzioni coinvolte e un dialogo aperto e costruttivo. Il Parlamento ha effettuato, con eccezionale rapidità, un ingente lavoro di sintesi delle osservazioni e delle istanze di numerosi enti istituzionali, associazioni di categoria ed esperti che ha contribuito alla fase finale di definizione del Piano.

Tale lavoro di sintesi si è affiancato all’intensa collaborazione tra i diversi Ministeri a vario titolo coinvolti nella predisposizione del Piano, un lavoro che ha molto beneficiato dell’azione svolta dal precedente Governo. Ringrazio anche le Regioni, le Provincie e i Comuni, il cui ruolo va oltre queste consultazioni. Gli enti territoriali sono infatti determinanti per la riuscita del Piano.

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Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza ha tre obiettivi principali. Il primo, con un orizzonte temporale ravvicinato, risiede nel riparare i danni economici e sociali della crisi pandemica.
La pandemia ci ha colpito più dei nostri vicini europei. Abbiamo raggiunto il numero di quasi 120.000 morti per il Covid-19, a cui si aggiungono i tanti mai registrati. Nel 2020 il PIL è caduto dell’8,9 per cento, l’occupazione è scesa del 2,8 per cento, ma il crollo delle ore lavorate è stato dell’11 per cento, il che dà la misura della gravità della crisi. I giovani e le donne hanno sofferto un calo di occupazione molto superiore alla media, particolarmente nel caso dei giovani nella fascia di età 15-24 anni. Le misure di sostegno all’occupazione e ai redditi dei lavoratori hanno notevolmente attutito l’impatto sociale della pandemia. Tuttavia, l’impatto si è sentito soprattutto sulle fasce più deboli della popolazione.

Tra il 2005 e il 2019, il numero di persone sotto la soglia di povertà assoluta è salito dal 3,3 al 7,7 per cento, per poi aumentare fino al 9,4 per cento nel 2020. Ancora una volta ad essere particolarmente colpiti sono stati donne e giovani e ancora una volta soprattutto nel Mezzogiorno. Con una prospettiva più di medio-lungo termine, il Piano affronta alcune debolezze che affliggono la nostra economia e la nostra società da decenni: i perduranti divari territoriali, le disparità di genere, la debole crescita della produttività e il basso investimento in capitale umano e fisico. Infine, le risorse del Piano contribuiscono a dare impulso a una compiuta transizione ecologica.

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Il Piano è articolato in progetti di investimento e riforme. L’accento sulle riforme è fondamentale. Queste non solo consentono di dare efficacia e rapida attuazione agli stessi investimenti, ma anche di superare le debolezze strutturali che hanno per lungo tempo rallentato la crescita e determinato livelli occupazionali insoddisfacenti, soprattutto per i giovani e le donne. Le riforme e gli investimenti sono corredati da obiettivi quantitativi e traguardi intermedi e sono organizzate in sei Missioni.

I progetti di ciascuna missione mirano ad affrontare tre nodi strutturali del nostro Paese, che costituiscono obiettivi orizzontali dell’intero Piano. Si tratta di colmare le disparità regionali tra il Mezzogiorno e il Centro Nord, le diseguaglianze di genere e i divari generazionali. Le risorse fornite attraverso il Dispositivo di ripresa e resilienza della UE sono pari a 191,5 miliardi. Il Governo ha deciso di stanziare ulteriori 30,6 miliardi per il finanziamento di un Piano nazionale complementare da affiancare al dispositivo europeo. Questo piano complementare finanzia progetti coerenti con le strategie del PNRR, che tuttavia eccedevano il tetto di risorse ottenibili dal dispositivo europeo.

Il PNRR e il Piano complementare sono stati disegnati in modo integrato: anche i progetti del secondo avranno gli stessi strumenti attuativi. Sono stati stanziati, inoltre, entro il 2032, ulteriori 26 miliardi da destinare alla realizzazione di opere specifiche. Queste includono la linea ferroviaria ad Alta Velocità Salerno-Reggio Calabria – che diventerà una vera alta velocità – e l’attraversamento di Vicenza relativo alla linea ad Alta Velocità Milano-Venezia. È poi previsto il reintegro delle risorse del Fondo Sviluppo e Coesione, utilizzate nell’ambito del dispositivo europeo per il potenziamento dei progetti ivi previsti per 15,5 miliardi.

Nel complesso potremo disporre di circa 248 miliardi di euro. A tali risorse, si aggiungono poi quelle rese disponibili dal programma REACT-EU che, come previsto dalla normativa UE, vengono spese negli anni 2021-2023. Si tratta di altri fondi per ulteriori 13 miliardi. Se si tiene conto solo di RRF e del Fondo Complementare, la quota dei progetti ‘verdi’ è pari al 40 per cento del totale. Quella dei progetti digitali il 27 per cento, come indicato dalle regole che abbiamo deciso in Europa. Il Piano destina 82 miliardi al Mezzogiorno su 206 miliardi ripartibili secondo il criterio del territorio, per una quota dunque del 40 per cento. C’è una forte attenzione all’inclusione di genere e al sostegno per i giovani.

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Il Piano ha effetti significativi sulle principali variabili economiche. Nel 2026 il PIL sarà di circa 3,6 punti percentuali superiore rispetto a uno scenario di riferimento che non tiene conto dell’attuazione del Piano. Ne beneficia anche l’occupazione che sarà più elevata, di 3,2 punti percentuali rispetto allo scenario base nel triennio 2024-2026. Queste stime ipotizzano un’elevata efficienza degli investimenti pubblici effettuati, ma non quantificano l’ulteriore impulso che potrà derivare dalle riforme previste dal Piano e per quanto riguarda l’occupazione femminile e giovanile non tiene conto della clausola di condizionalità trasversale a tutto il Piano. L’accelerazione della crescita può essere superiore a quanto riportato nel PNRR se riusciamo ad attuare riforme efficaci e mirate a migliorare la competitività della nostra economia.

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Il governo del Piano è strutturato su diversi livelli. L’attuazione delle iniziative e delle riforme, nonché la gestione delle risorse finanziarie, sono responsabilità dei Ministeri e le autorità locali, che sono chiamati a uno straordinario impegno in termini di organizzazione, programmazione e gestione. Le funzioni di monitoraggio, controllo e rendicontazione e i contatti con la Commissione Europea sono affidati al Ministero dell’Economia e delle Finanze. Infine, è prevista una cabina di regia presso la Presidenza del Consiglio, con il compito tra l’altro di interloquire con le amministrazioni responsabili in caso di riscontrate criticità nell’attuazione del Piano.

Voglio sottolineare l’importante ruolo svolto da Regioni ed Enti locali nell’ambito dell’attuazione del Piano. Sono infatti responsabili della realizzazione di quasi 90 miliardi di investimenti, circa il 40 percento del totale, in particolare con riferimento alla transizione ecologica, all’inclusione e coesione sociale e alla salute.

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La prima Missione riguarda i temi della Digitalizzazione, Innovazione, Competitività e Cultura. Nel complesso, le risorse destinate a questa Missione sono quasi 50 miliardi, di cui 41 finanziate con il Dispositivo Europeo e 8,5 con il Piano complementare nazionale, pari al 27% delle risorse totali del Piano. L’obiettivo principale è promuovere e sostenere la trasformazione digitale e l’innovazione del sistema produttivo del Paese. Abbiamo scelto di investire nella crescita dimensionale delle nostre imprese e in filiere ad alta tecnologia.

Una particolare attenzione va poi a turismo e cultura. È facile quando si parla di digitale, parlare di fibra, di cloud, di 5G, di identità digitale, di telemedicina e delle molte altre tecnologie sulle quali proponiamo di investire. In realtà dobbiamo ricordare per cosa la trasformazione digitale è essenziale per il nostro Paese.

Noi vogliamo che dal 2027 le nostre ragazze e ragazzi possano avere accesso alle migliori esperienze educative, ovunque esse siano in Italia. Vogliamo che i nostri imprenditori, piccoli e grandi, possano lanciare e far crescere le loro attività rapidamente e efficientemente. Vogliamo permettere alle donne imprenditrici di realizzare i loro progetti. Vogliamo che i lavoratori e le lavoratrici continuino ad acquisire le competenze per le professioni di oggi e di domani. Vogliamo che le persone più sole o vulnerabili possano esser assistite dagli operatori sanitari, dai volontari e dai loro famigliari nel miglior e più tempestivo modo possibile. Vogliamo che le pubbliche amministrazioni e i loro servizi siano accessibili senza ostacoli, senza costi e senza inutile spreco di tempo. Vogliamo insomma accelerare l’adozione della tecnologia – nel pubblico, nel privato e nelle famiglie – per dare alla fine del quinquennio 2021-26 eque opportunità a tutti. In particolare a giovani, donne e a chi vive in territori meno connessi.

Per il rilancio della cultura e del turismo, due settori chiave per l’Italia anche per il loro significato identitario, una prima linea di azione riguarda interventi di valorizzazione di siti storici e culturali, volti a migliorare la capacità attrattiva, la sicurezza e l’accessibilità dei luoghi. Gli interventi sono dedicati non solo ai cosiddetti “grandi attrattori”, ma anche alla tutela e alla valorizzazione dei siti minori. Si aggiungono misure per una riqualificazione ambientalmente sostenibile delle strutture e dei servizi turistici, che fanno leva anche sulle nuove tecnologie.

Il Piano non trascura il fatto che il rafforzamento della digitalizzazione e la spinta all’innovazione devono essere realizzati in maniera sinergica tra settori e aree di intervento. Molte misure di cui dirò più avanti relativamente ad altre Missioni, ad esempio relativamente a Istruzione e Ricerca o Sanità, completano la strategia del Governo in questa area.

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La seconda Missione, denominata Rivoluzione Verde e Transizione Ecologica, si occupa dei grandi temi dell’agricoltura sostenibile, dell’economia circolare, della transizione energetica, della mobilità sostenibile, dell’efficienza energetica degli edifici, delle risorse idriche e dell’inquinamento. Essa è particolarmente importante per l’Italia, che è maggiormente esposta a rischi climatici rispetto ad altri Paesi. La missione migliora la sostenibilità del sistema economico e assicura una transizione equa e inclusiva verso una società a impatto ambientale pari a zero. La dotazione complessiva di questa missione è la più cospicua tra le 6 proposte (quasi 70 miliardi, di cui 60 finanziati con il Dispositivo europeo). Vi sono inoltre investimenti a supporto della transizione ecologica anche in altre Missioni.

La Missione prevede misure per migliorare la gestione dei rifiuti e per l’economia circolare, rafforza le infrastrutture per la raccolta differenziata, e ammoderna o sviluppa nuovi impianti di trattamento rifiuti. Per raggiungere la progressiva decarbonizzazione, sono previsti interventi per incrementare significativamente l’utilizzo di fonti di energia rinnovabili, per il rafforzamento delle reti e per una mobilità più sostenibile. Vi è un significativo sforzo per promuovere l’efficientamento energetico di edifici pubblici e privati.

Per il Superbonus al 110 per cento sono previsti, tra PNRR e Fondo complementare, oltre 18 miliardi, le stesse risorse stanziate dal precedente governo. Non c’è alcun taglio. La misura è finanziata fino alla fine del 2022, con estensione al giugno 2023 solo per le case popolari (Iacp). È un provvedimento importante per il settore delle costruzioni e per l’ambiente. Per il futuro, il Governo si impegna a inserire nel Disegno di Legge di bilancio per il 2022 una proroga dell’ecobonus per il 2023, tenendo conto dei dati relativi alla sua applicazione nel 2021, con riguardo agli effetti finanziari, alla natura degli interventi realizzati, al conseguimento degli obiettivi di risparmio energetico e sicurezza degli edifici.

Inoltre, nella missione, non sono stati trascurati i temi della sicurezza del territorio, con interventi di prevenzione e di ripristino a fronte di significativi rischi idrogeologici, della salvaguardia delle aree verdi e della biodiversità, e quelli relativi all’eliminazione dell’inquinamento delle acque e del terreno, e alla disponibilità di risorse idriche.

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La Missione 3 dispone una serie di investimenti finalizzati allo sviluppo di una rete di infrastrutture di trasporto moderna, digitale, sostenibile e interconnessa. Nel complesso a questa finalità sono allocati oltre 31 miliardi. Gran parte delle risorse è destinata all’ammodernamento e al potenziamento della rete ferroviaria. Si prevede il completamento dei principali assi ferroviari ad alta velocità ed alta capacità (per una spesa stimata in 13,2 miliardi), l’integrazione fra questi e la rete ferroviaria regionale e la messa in sicurezza dell’intera rete. Vi sono poi interventi per la digitalizzazione del sistema della logistica, per migliorare la sicurezza di ponti e viadotti, e misure per innalzare la competitività, capacità e produttività dei porti italiani.

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La Missione 4, Istruzione e Ricerca, incide su fattori indispensabili per un’economia basata sulla conoscenza. Oltre ai loro risvolti benefici sulla crescita, tali fattori sono determinanti anche per l’inclusione e l’equità. I progetti proposti intendono rafforzare il sistema educativo lungo tutto il percorso di istruzione, sostenere la ricerca e favorire la sua integrazione con il sistema produttivo. Gli interventi principali riguardano: il miglioramento qualitativo e ampliamento quantitativo dei servizi di istruzione, a partire dal rafforzamento dell’offerta di asili nido, scuole materne e servizi di educazione e cura per la prima infanzia; lo sviluppo e il rafforzamento dell’istruzione professionalizzante; i processi di reclutamento e di formazione degli insegnanti; il potenziamento e l’ammodernamento delle infrastrutture scolastiche, ad esempio con il cablaggio interno di circa 40.000 edifici scolastici; la riforma e l’ampliamento dei dottorati; il rafforzamento della ricerca e la diffusione di modelli innovativi per la ricerca di base e applicata condotta in sinergia tra università e imprese; il sostegno ai processi di innovazione e trasferimento tecnologico.

Alla Missione 4 sono destinati quasi 32 miliardi, di cui uno finanziato con risorse nazionali tramite il Fondo complementare, e 31 con il Dispositivo europeo.

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La quinta Missione è destinata alle politiche attive del lavoro e della formazione, all’inclusione sociale e alla coesione territoriale. I fondi destinati a questi obiettivi superano nel complesso i 22 miliardi. Ulteriori 7,3 miliardi di interventi beneficeranno delle risorse di REACT-EU. Sono previsti investimenti in attività di formazione e riqualificazione dei lavoratori. Si prevede l’introduzione di una riforma organica e integrata in materia di politiche attive e formazione, nonché misure specifiche per favorire l’occupazione giovanile. Sono introdotte misure a sostegno dell’imprenditorialità femminile e un sistema di certificazione della parità di genere che accompagni e incentivi le imprese ad adottare politiche adeguate a ridurre il gap di genere.

Si è scelto poi di destinare importanti risorse alle infrastrutture sociali funzionali alla realizzazione di politiche a sostegno delle famiglie, dei minori, delle persone con gravi disabilità e degli anziani non autosufficienti. A queste si affiancano misure per la riqualificazione dei tessuti urbani più vulnerabili (periferie, aree interne del Paese) e interventi di potenziamento dell’edilizia residenziale pubblica e di housing temporaneo e sociale.

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La Missione 6 riguarda la Salute, un settore critico, che ha affrontato sfide di portata storica nell’ultimo anno. La pandemia da Covid-19 ha confermato il valore universale della salute, la sua natura di bene pubblico fondamentale e la rilevanza macro-economica dei servizi sanitari pubblici. Le riforme e gli investimenti proposti con il Piano in quest’area hanno due obiettivi principali: rafforzare la prevenzione e i servizi sanitari sul territorio e modernizzare e digitalizzare il sistema sanitario, al fine di garantire un equo accesso a cure efficaci. La dotazione per questa missione è complessivamente di 18,5 miliardi, di cui 15,6 relativamente a finanziamenti RFF e 2,9 di risorse nazionali.

Il miglioramento delle prestazioni erogate sul territorio è perseguito attraverso il potenziamento e la creazione di strutture e presidi territoriali (come le Case della Comunità e gli Ospedali di Comunità), il rafforzamento dell’assistenza domiciliare, lo sviluppo della telemedicina e una più efficace integrazione con tutti i servizi socio-sanitari.

A queste misure si affiancano progetti per il rinnovamento e l’ammodernamento delle strutture tecnologiche e digitali esistenti; per il completamento e la diffusione del Fascicolo Sanitario Elettronico; per una migliore capacità di erogazione e monitoraggio dei Livelli Essenziali di Assistenza.

Rilevanti risorse sono destinate inoltre alla ricerca scientifica e a favorire il trasferimento tecnologico, oltre che a rafforzare le competenze e il capitale umano del Servizio Sanitario Nazionale.

Nel più generale ambito sociosanitario, introduciamo un’importante riforma per la non autosufficienza, con l’obiettivo primario di offrire risposte ai problemi degli anziani. Questa misura affronta in maniera coordinata i diversi bisogni che scaturiscono dalle conseguenze dell’invecchiamento. Vogliamo che i nostri anziani possano essere messi in condizione di mantenere o riguadagnare la massima autonomia possibile, in un contesto il più possibile de-istituzionalizzato. Dopo le sofferenze e le paure di questi mesi di pandemia, non possiamo dimenticarci di loro.

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Vediamo ora l’impatto del Piano su donne, giovani e sud. Eliminare gli ostacoli che limitano la partecipazione delle donne al mercato del lavoro è fondamentale per la ripresa dell’Italia. Il Piano interviene sulle molteplici dimensioni del divario di genere e si inserisce nel percorso di riforma avviato con il Family Act. Il Governo intende lanciare entro il primo semestre 2021 la Strategia nazionale per la parità di genere 2021-2026. Il PNRR sviluppa le priorità di questa Strategia nazionale e le articola in un ampio programma. 4,6 miliardi sono dedicati a costruire nuovi asili nido, scuole materne e servizi di educazione e cura per la prima infanzia.

Quasi un miliardo va a finanziare l’estensione del tempo pieno nelle scuole primarie per permettere alle famiglie – e alle madri in particolare – di conciliare meglio la loro vita professionale e lavorativa. Il Piano prevede 400 milioni per favorire l’imprenditorialità femminile, e stanzia oltre 1 miliardo per la promozione delle competenze in ambito tecnico-scientifico, soprattutto per le studentesse. Infine, grazie all’azione di questo Parlamento, l’assegno unico diventerà lo strumento centrale e onnicomprensivo per il sostegno alle famiglie con figli, in sostituzione delle misure frammentarie fino ad oggi vigenti. È una riforma che rappresenta un cambio di paradigma nelle politiche per la famiglia e a sostegno della natalità.

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Un Piano che guarda alle prossime generazioni deve infatti riconoscere la nostra realtà demografica. Siamo uno dei paesi con la più bassa fecondità in Europa: meno di 1,3 figli per ciascuna donna contro quasi 1,6 della media Ue. Per mettere i nostri giovani nella condizione di formare una famiglia, dobbiamo rispondere a tre loro richieste: un welfare adeguato, una casa e un lavoro sicuro. Oltre al piano agli asili nido, di cui ho già parlato, i giovani beneficiano dalle misure per le infrastrutture sociali e le case popolari.

E in un prossimo decreto, di imminente approvazione, sono previsti altre risorse per aiutare i giovani a contrarre un mutuo per acquistare una casa. Sarà possibile non pagare un anticipo, grazie all’introduzione di una garanzia statale. 1,8 miliardi vanno ad accrescere la competitività delle imprese turistiche, di cui una parte importante è destinata a incentivare la creazione di nuove imprese da parte di chi ha meno di 35 anni.

Potenziamo il “Servizio Civile Universale” per i giovani tra i 18 e i 28 anni, al quale destiniamo 650 milioni per il periodo 2021-2023. Si tratta di una forma di cittadinanza attiva che è, allo stesso tempo, uno strumento di formazione e un motore di inclusione e coesione sociale. I giovani possono orientarsi rispetto allo sviluppo della propria vita professionale e, allo stesso tempo, rendere un servizio nobile alla propria comunità e all’Italia. Sempre per i giovani, investiamo 600 milioni di euro per rafforzare il sistema duale e rendere i sistemi di istruzione e formazione più in linea con il mercato del lavoro. Questo intervento agevola l’occupazione giovanile e allo stesso tempo viene incontro alle esigenze delle imprese in termini di competenze. Tra le altre misure legate all’istruzione, ribadiamo la centralità dello sport nel percorso formativo dei ragazzi e delle ragazze. Il Piano dedica un miliardo alle strutture sportive per i giovani, in parte dedicato a nuove palestre e attrezzature sportive nelle scuole, in parte a rafforzare il ruolo dello sport come strumento di inclusione sociale e di contrasto alla marginalizzazione.

Più in generale, i giovani saranno tra i principali beneficiari di tutto il Piano. Gli investimenti e le riforme sulla transizione ecologica creeranno principalmente occupazione giovanile. La creazione di opportunità per i giovani nel mondo del lavoro sarà anche l’effetto naturale degli interventi sulla digitalizzazione che, tra l’altro, consentiranno di completare la connettività delle scuole.

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Il Piano prevede una specifica attenzione per le persone con disabilità, nell’ambito degli interventi per ridurre i divari territoriali nella scuola secondaria di secondo grado. Gli interventi per la mobilità, il trasporto pubblico locale e le linee ferroviarie favoriscono il miglioramento e l’accessibilità di infrastrutture e servizi per tutti i cittadini. È previsto un investimento straordinario sulle infrastrutture sociali, nonché sui servizi sociali e sanitari di comunità e domiciliari, per migliorare l’autonomia delle persone con disabilità. Il miglioramento di servizi sanitari sul territorio favorisce un accesso realmente universale alla sanità pubblica. Si prevede, infine, di introdurre la Legge Quadro sulle disabilità per semplificare l’accesso ai servizi e i meccanismi di accertamento della disabilità. Nel corso dell’attuazione del Piano, l’Osservatorio Nazionale sulla condizione delle persone con disabilità monitorerà che le riforme proposte siano adeguatamente inclusive.

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La crescita del Mezzogiorno rappresenta l’altro aspetto prioritario trasversale al Piano. Il potenziale del sud in termini di sviluppo, competitività e occupazione è tanto ampio quanto è grande il suo divario dal resto del Paese. Non è una questione di campanili: se cresce il sud, cresce anche l’Italia. Più del 50 per cento del totale degli investimenti in infrastrutture – soprattutto l’alta velocità ferroviaria e il sistema portuale – è diretto al sud. Gli interventi su economia circolare, transizione ecologica, mobilità sostenibile e tutela del territorio e della risorsa idrica destinano al Mezzogiorno 23 miliardi. A questi investimenti si accompagnano la riforma delle Zone economiche speciali e un robusto finanziamento della loro dotazione infrastrutturale, pari a oltre 600 milioni. Stimiamo che l’incremento complessivo del PIL del Mezzogiorno negli anni 2021-2026 sarà pari a quasi 1,5 volte l’aumento del PIL nazionale. L’obiettivo è rendere il Mezzogiorno un luogo di attrazione di capitali privati e di imprese innovative.

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Come dicevo, il PNRR non è soltanto un piano di investimenti, ma anche e soprattutto di riforme. La riforma della giustizia affronta i nodi strutturali del processo civile e penale. Nonostante i progressi degli ultimi anni, permangono ritardi eccessivi. In media sono necessari oltre 500 giorni per concludere un procedimento civile in primo grado, a fronte dei circa 200 in Germania. Il Piano rivede l’organizzazione degli uffici giudiziari e crea l’Ufficio del processo, una struttura a supporto del magistrato nella fase “conoscitiva” della causa. Nel campo della giustizia civile si semplifica il rito processuale in primo grado e in appello, e si dà definitivamente attuazione al processo telematico, come richiesto nei mesi scorsi dal Senato. Il Governo intende ridurre l’inaccettabile arretrato presente nelle aule dei tribunali, e creare i presupposti per evitare che se ne formi di nuovo. Questo è uno degli impegni più importanti ed espliciti che abbiamo preso verso l’Unione europea. L’obiettivo finale che ci proponiamo è ambizioso, ridurre i tempi dei processi del 40 per cento per il settore civile e almeno del 25 per cento per il penale. Vogliamo un sistema giudiziario strutturalmente più efficiente ed elevare la qualità della risposta del sistema.

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La seconda riforma di sistema riguarda la Pubblica amministrazione, sulla cui capacità di rispondere in modo efficiente ed efficace incidono diversi fattori. Tra questi: la stratificazione normativa, la limitata e diseguale digitalizzazione, lo scarso investimento nel capitale umano dei dipendenti, l’assenza di ricambio generazionale e di aggiornamento delle competenze.

La riforma interviene su quattro ambiti principali: Assunzioni e concorsi, mediante una razionalizzazione delle procedure di assunzione e una programmazione degli organici mirata a fornire servizi efficienti a imprese e cittadini. Buona amministrazione, grazie a una semplificazione del quadro normativo e procedurale. Rafforzamento delle Competenze, tramite una revisione dei percorsi di carriera, la formazione continua del personale e lo sviluppo professionale. La Digitalizzazione, con investimenti in tecnologia, la creazione di unità dedicate alle semplificazione dei processi e la riorganizzazione degli uffici.

Inoltre, entro maggio presentiamo un decreto che interviene con misure di carattere prevalentemente strutturale volte a favorire l’attuazione del PNRR e del Piano complementare. Oltre a importanti semplificazioni negli iter di attuazione e di valutazione degli investimenti in infrastrutture, si procede a una semplificazione delle norme in materia di appalti pubblici e concessioni.

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Il Piano vuole anche impegnare Governo e Parlamento a una continuativa e sistematica opera di abrogazione e modifica delle norme che frenano la concorrenza, creano rendite di posizione e incidono negativamente sul benessere dei cittadini. Questi principi sono essenziali per la buona riuscita del Piano: dobbiamo impedire che i fondi che ci accingiamo a investire finiscano soltanto ai monopolisti. A questo fine assume un ruolo cruciale la Legge annuale sulla concorrenza – prevista nell’ordinamento nazionale dal 2009, ma realizzata solo una volta nel 2017. Intendiamo varare norme volte ad agevolare l’attività d’impresa in settori strategici come le reti digitali e l’energia.

Alcune di queste norme sono già individuate nel Piano, ad esempio il completamento degli obblighi di gara per i regimi concessori oppure la semplificazione delle autorizzazioni per la realizzazione degli impianti di gestione dei rifiuti. Il Governo si impegna a mitigare gli effetti negativi che alcune di queste misure potrebbero produrre, rafforzando i meccanismi di regolamentazione e la protezione sociale.

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Devo ringraziare questo Parlamento per l’impulso politico che anima tutto il Piano: l’attenzione a ambiente, giovani, donne, mezzogiorno che informa ogni intervento è prima di tutto frutto della vostra azione. Sono certo che riusciremo ad attuare questo Piano. Sono certo che l’onestà, l’intelligenza, il gusto del futuro prevarranno sulla corruzione, la stupidità, gli interessi costituiti.

Questa certezza non è sconsiderato ottimismo, ma fiducia negli Italiani, nel mio popolo, nella nostra capacità di lavorare insieme quando l’emergenza ci chiama alla solidarietà, alla responsabilità. È con la fiducia che questo appello allo spirito repubblicano verrà ascoltato, e che si tradurrà nella costruzione del nostro futuro, che presento oggi questo Piano al Parlamento.

martedì 20 aprile 2021

Analisi culturale del Canto 13 del Purgatorio della Divina commedia di Dante Alighieri

Analisi culturale del Canto 13 del Purgatorio della Divina commedia di Dante Alighieri.

 

Il canto 13 riguarda la figura degli invidiosi che devono subire come punizione quella di ascoltare esempi di carità esaltata e di invidia punita. Nella concezione della Divina Commedia, l'invidia è un peccato contrario alla carità perché gli invidiosi non furono solidali con gli altri durante la loro vita. In termini culturali, la figura dell'invidioso è una persona che aderisce ampiamente alla dimensione di tipo " vincolati" perché non può dirsi felice, con la libertà di parola come non importante ( non può rivelare questo suo sentimento agli altri) ed è poco propenso nel ricordare le emozioni positive nella sua vita. La punizione per questi invidiosi viene individuata da parte di Dante nell'adesione alla virtù della Carità. In altre parole, la punizione per questi invidiosi si può collocare nella dimensione culturale di tipo " vincolati" così come nella dimensione culturale di tipo " debole evitamento dell'incertezza" perché dovranno accettare di vivere senza stress, accettare le giornate così come vengono, mostrando tolleranza verso le persone, le idee divergenti e con il bisogno di vedere gli altri come competenti.

 In questi versi del Canto 13, Virgilio si rivolge al sole come lume e guida da seguire costantemente da parte del poeta Dante, vale a dire il sole come maestro-guida è sicuramente un elemento in sintonia con la dimensione culturale di " alta distanza sociale dal potere" perché non ci è concesso di mettere in discussione gli insegnamenti provenienti dal maestro Sole. Nel canto 13, le virtù, da ricollegare alla dimensione di tipo " soddisfatti", e i vizi, di ricollocare nella dimensione di tipo "vincolati", non sono visibili ma vengono gridati, ossia sono in sintonia con la dimensione culturale di "forte evitamento dell'incertezza" perché il grido implica un bisogno di chiarezza testimoniato dagli esempi di carità. Nella concezione della Divina Commedia, l'invidia è frutto dell'amore sviato perché si rivolge al male e desidera il male del prossimo. Questa concezione di Dante mette in luce il tema dell'amore da tradurre in termini di dimensione culturale come un insieme di elementi riportati in questo modo:

- l'amore si colloca nella dimensione di "bassa distanza sociale con il potere" perché le decisioni vanno legittimate nell'amore;

- l'amore trova una forte presenza della dimensione culturale di " debole evitamento dell'incertezza" perché occorre essere tranquilli, vivere con poco stress, con tolleranza verso la differenza, a proprio agio con l'ambiguità, il caos e dove l'altro è visto come competente nella sua vita;

- l'amore è collegato alla dimensione culturale di tipo " collettivismo" perché l'amore richiede lealtà, un noi coscienzioso e una enfatizzazione dell'appartenenza;

- l'amore è anche in sintonia con la dimensione di tipo " femminilità" perché occorre un equilibrio tra la vita di famiglia e il lavoro;

- l'amore è in sintonia con la dimensione di tipo " orientamento temporale a lungo termine" perché i fatti più importanti devono succedere nel futuro, ci si adatta alle circostanze e si è guidati da compiti condivisi.

Per finire il tema dell'amore è legato alla dimensione di tipo " soddisfatti" perché ci si dice felici e si tende a volere ricordare delle emozioni positive.

Tutti questi punti menzionati per l'amore in termini culturali vengono "sviati" da parte degli invidiosi perché si rivolgono al " male" inteso come dimensione culturale di tipo " forte evitamento dell'incertezza" perché si è intolleranti verso gli altri. Inoltre, la ricerca del male altrui rientra nell'assenza della dimensione di tipo " collettivismo" perché è mancante un noi di tipo coscienzioso e prevale un " tutti devono badare a se stessi".

 Il contrappasso per gli invidiosi consiste nell'accecamento perché è la vista come senso che ha provocato il peccato ed è la carità, intesa come contrario dell'invidia, la soluzione per tornare sulla retta via. In altre parole, l'accecamento da parte degli invidiosi diventa una completa adesione alla dimensione culturale di tipo " vincolati" perché non possono dirsi felici e vivono con un sentimento di abbandono perché le cose non dipendono da noi.

 In questo canto, Dante incontra Sapia ( nobildonna di Siena), la quale narra del suo pentimento all'ultimo momento della sua vita e di come Pier Pettinaio ( concittadino di Sapia a Siena) abbia pregato per lei per farle conquistare il Purgatorio mostrando per lei quella carità che Sapia non ha avuto in vita.

 Il pentimento di Sapia è molto rilevante perché segnala un'adesione ad una dimensione di tipo " debole evitamento dell'incertezza" perché cambiare idea non è un problema. Poi ritroviamo la dimensione di tipo " individualismo" con un io di tipo coscienzioso e il compito è più importante delle relazioni. In aggiunta, abbiamo anche una presenza della dimensione culturale di tipo " orientamento a lungo termine" perché si è pronti al cambiamento e ci si adatta alle circostanze. Questo pentimento consente un ritorno alla dimensione di tipo " soddisfatti" perché si ha una libertà di parola come fatto importante e con una rinnovata sensazione di controllo della propria vita.

 In questi versi, la polemica verso i senesi diventa alla fine un'opera di carità animata dall'intento di risvegliare nella propria popolazione il proprio orgoglio. In altri termini, questa polemica di Sapia verso Siena può essere interpretata come un elemento di adesione alla dimensione di tipo " collettivismo" con un sentimento di appartenenza e con un noi di tipo coscienzioso. Questi  elementi della dimensione di tipo " collettivismo" si ricollegano allo stesso tempo con il sentimento dell'amore.

 Nei primi versi del canto 13 si raggiunge il vertice della montagna per purificarsi dal peccato, in altre parole questa montagna è priva di segni visibili ed è Virgilio che per indicare una guida guarda il sole per trovare la strada giusta. Il vertice della montagna privato di segni diventa un elemento di adesione ad una dimensione culturale di tipo " debole evitamento dell'incertezza" perché si è a proprio agio nell'ambiguità e nel caos. In questa situazione rientra il ruolo di Virgilio come guida in sintonia con una dimensione di tipo " alta distanza sociale dal potere" in cui è irrilevante legittimare i propri insegnamenti come suggerisce la lontananza del sole con la sua luce e i suoi raggi. Infatti, la luce diventa come il perno al quale affidarsi per intraprendere la strada, con il sole capace di riscaldare e fare splendere il mondo e i suoi raggi diventano la guida del cammino secondo il pensiero di Virgilio. In seguito, giunge il primo esempio di carità con una voce che ripeteva " non hanno vino", poi un'altra voce gridava " io sono Oreste" in modo continuo. In questi esempi vediamo come le ombre gridano come elemento di "forte evitamento dell'incertezza" perché è un modo per essere chiaro e privo di ambiguità di fronte ai peccato compiuti dagli invidiosi.

XXX Dante vuole sapere da Virgilio il senso di queste voci ma giunge una terza voce " amate coloro da cui avete ricevuto offese". Virgilio offre come risposta: in questo girone si punisce l'invidia con la frusta dell'amore. Le voci ci indicano il contrario dell'invidia in cui la pena degli invidiosi è quella di essere costretti a reggersi a vicenda seduti accanto alle pareti rocciose del monte. In questa punizione del "reggersi a vicenda" vediamo come gli invidiosi devono aderire ad una dimensione di tipo " collettivismo" con la presenza di un noi di tipo coscienzioso e l'enfatizzazione dell'appartenenza.

 Ulteriori voci gridano: " Maria prega per noi, Michele, Pietro e tutti i santi". Gli invidiosi diventano delle ombre che sono diventate cieche e sono prive del necessario per vivere, chiedono le indulgenze e l'elemosina davanti alle chiese e devono appoggiare la loro testa sulle spalle del vicino. Gli invidiosi sono privati della luce del sole come punizione e Dante chiede a Virgilio consigli quando vede queste ombre cieche senza essere visto da loro.  Queste ombre sono cieche, privi di luce e di mezzi sono tutti elementi per rientrare nella dimensione di tipo " vincolati" perché si è infelice, con un sentimento di abbandono e con poca propensione nel ricordare le emozioni positive.

Virgilio chiede a Dante di essere breve e chiaro nelle sue domande. Dante rivolge la parola a queste ombre invocando per loro la possibilità di rivedere la luce divina, la quale "grazia" possa dissolvere le impunità della vostra coscienza. Dante chiede alle ombre se esiste un'anima che parli italiano e tra le ombre una risponde: " o fratello mio, ciascun'anima è cittadina della città di Dio, ma quando ero pellegrina in terra vissi in Italia." Dante replica chiedendo a questo spirito di farsi riconoscere segnalando la sua patria o il suo nome".  In questa ricerca di un'ombra capace di parlare in italiano possiamo ritrovare un'adesione ad una dimensione di tipo " collettivismo" con la ricerca di un proprio "in-group" di appartenenza di fronte ad altre ombre intese come " out-group".

 Lo spirito rispose " io fui senese e insieme a questi altri pongo rimedio qui alla mia vita malvagia implorando Dio che si conceda a noi". L'ombra continua dicendo: " io non fui savia, anche se il mio nome è Sapia, e fui più lieta delle altrui disgrazie che della mia buona sorte. Sapia racconta come lei prese le parti contro la sua città durante la guerra pregando Dio per fare perdere la sua città. Sapia provò molta gioia nel vedere la sua città perdere. Lei gridò " ormai non ti temo più Dio". Soltanto alla fine della sua vita Sapia cerca di riconciliarsi con Dio in modo da ridurre il suo debito con il Signore. Saranno le preghiere di Pier Pettinaio a consentire a Sapia di ritrovarsi in Purgatorio. In questi versi vediamo incarnati gli elementi del pentimento inteso come un'adesione ad una dimensione di " debole evitamento dell'incertezza" con la capacità di modificare la propria opinione.

Dopo queste sue parole, Sapia chiederà chi fosse questa persona curiosa (Dante) delle loro condizioni. Anche Dante perderà per un breve periodo la vista per il suo breve e lieve peccato di invidia ma è soprattutto la cornice sottostante ad impaurire Dante con trepidazioni e senso di oppressione di fronte al peso del masso di quella cornice. Sapia vuole sapere chi ha portato Dante tra queste ombre se poi dovrà tornare nel mondo. Lo stesso Dante risponderà di essere accompagnato da una guida silenziosa come Virgilio. Per Sapia è un fatto straordinario quello che vive Dante perché è un segno che Virgilio lo ama e per questo motivo Sapia vuole che Dante preghi per lei. Poi Sapia chiede a Dante di ripristinare la sua rispettabilità presso i suoi parenti se avrà modo di ritornare in Toscana. Alla fine del canto, Sapia critica comunque la propria gente intesa come gente stolta che perderà la guerra. Alla fine di questi versi, Sapia chiede al poeta Dante di ridare "rispettabilità" alla sua persona presso i suoi parenti, ossia richiede una dimensione di tipo " collettivismo" enfatizzando l'appartenenza ad una città, con un noi coscienzioso e dove il ruolo delle relazioni diventa più importanti dei compiti all'interno della propria famiglia.

 
http://laspada.altervista.org/wp-content/uploads/2016/01/DIVCOMMpurg_13.pdf
 
 
 
Non era ancor di là Nesso arrivato,
quando noi ci mettemmo per un bosco
che da neun sentiero era segnato.                           3
  Non fronda verde, ma di color fosco;
non rami schietti, ma nodosi e 'nvolti;
non pomi v'eran, ma stecchi con tòsco.                      6
  Non han sì aspri sterpi né sì folti
quelle fiere selvagge che 'n odio hanno
tra Cecina e Corneto i luoghi cólti.                        9
  Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno,
che cacciar de le Strofade i Troiani
con tristo annunzio di futuro danno.                        12
  Ali hanno late, e colli e visi umani,
piè con artigli, e pennuto 'l gran ventre;
fanno lamenti in su li alberi strani.                       15
  E 'l buon maestro «Prima che più entre,
sappi che se' nel secondo girone»,
mi cominciò a dire, «e sarai mentre                         18
  che tu verrai ne l'orribil sabbione.
Però riguarda ben; sì vederai
cose che torrien fede al mio sermone».                      21
  Io sentia d'ogne parte trarre guai
e non vedea persona che 'l facesse;
per ch'io tutto smarrito m'arrestai.                        24
  Cred'ïo ch'ei credette ch'io credesse
che tante voci uscisser, tra quei bronchi
da gente che per noi si nascondesse.                        27
  Però disse 'l maestro: «Se tu tronchi
qualche fraschetta d'una d'este piante,
li pensier c'hai si faran tutti monchi».                    30
  Allor porsi la mano un poco avante
e colsi un ramicel da un gran pruno;
e 'l tronco suo gridò: «Perché mi schiante?».               33
  Da che fatto fu poi di sangue bruno,
ricominciò a dir: «Perché mi scerpi?
non hai tu spirto di pietade alcuno?                        36
  Uomini fummo, e or siam fatti sterpi:
ben dovrebb'esser la tua man più pia,
se state fossimo anime di serpi».                           39
  Come d'un stizzo verde ch'arso sia
da l'un de'capi, che da l'altro geme
e cigola per vento che va via,                              42
  sì de la scheggia rotta usciva insieme
parole e sangue; ond'io lasciai la cima
cadere, e stetti come l'uom che teme.                       45
  «S'elli avesse potuto creder prima»,
rispuose 'l savio mio, «anima lesa,
ciò c'ha veduto pur con la mia rima,                        48
  non averebbe in te la man distesa;
ma la cosa incredibile mi fece
indurlo ad ovra ch'a me stesso pesa.                        51
  Ma dilli chi tu fosti, sì che 'n vece
d'alcun'ammenda tua fama rinfreschi
nel mondo sù, dove tornar li lece».                         54
  E 'l tronco: «Sì col dolce dir m'adeschi,
ch'i' non posso tacere; e voi non gravi
perch'ïo un poco a ragionar m'inveschi.                     57
  Io son colui che tenni ambo le chiavi
del cor di Federigo, e che le volsi,
serrando e diserrando, sì soavi,                            60
  che dal secreto suo quasi ogn'uom tolsi:
fede portai al glorïoso offizio,
tanto ch'i' ne perde' li sonni e ' polsi.                   63
  La meretrice che mai da l'ospizio
di Cesare non torse li occhi putti,
morte comune e de le corti vizio,                           66
  infiammò contra me li animi tutti;
e li 'nfiammati infiammar sì Augusto,
che ' lieti onor tornaro in tristi lutti.                   69
  L'animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto.                          72
  Per le nove radici d'esto legno
vi giuro che già mai non ruppi fede
al mio segnor, che fu d'onor sì degno.                      75
  E se di voi alcun nel mondo riede,
conforti la memoria mia, che giace
ancor del colpo che 'nvidia le diede».                      78
  Un poco attese, e poi «Da ch'el si tace»,
disse 'l poeta a me, «non perder l'ora:
ma parla, e chiedi a lui, se più ti piace».                 81
  Ond'ïo a lui: «Domandal tu ancora
di quel che credi ch'a me satisfaccia;
ch'i' non potrei, tanta pietà m'accora».                    84
  Perciò ricominciò: «Se l'om ti faccia
liberamente ciò che 'l tuo dir priega,
spirito incarcerato, ancor ti piaccia                       87
  di dirne come l'anima si lega
in questi nocchi; e dinne, se tu puoi,
s'alcuna mai di tai membra si spiega».                      90
  Allor soffiò il tronco forte, e poi
si convertì quel vento in cotal voce:
«Brievemente sarà risposto a voi.                           93
  Quando si parte l'anima feroce
dal corpo ond'ella stessa s'è disvelta,
Minòs la manda a la settima foce.                           96
  Cade in la selva, e non l'è parte scelta;
ma là dove fortuna la balestra,
quivi germoglia come gran di spelta.                        99
  Surge in vermena e in pianta silvestra:
l'Arpie, pascendo poi de le sue foglie,
fanno dolore, e al dolor fenestra.                          102
  Come l'altre verrem per nostre spoglie,
ma non però ch'alcuna sen rivesta,
ché non è giusto aver ciò ch'om si toglie.                  105
  Qui le trascineremo, e per la mesta
selva saranno i nostri corpi appesi,
ciascuno al prun de l'ombra sua molesta».                   108
  Noi eravamo ancora al tronco attesi,
credendo ch'altro ne volesse dire,
quando noi fummo d'un romor sorpresi,                       111
  similemente a colui che venire
sente 'l porco e la caccia a la sua posta,
ch'ode le bestie, e le frasche stormire.                    114
  Ed ecco due da la sinistra costa,
nudi e graffiati, fuggendo sì forte,
che de la selva rompieno ogni rosta.                        117
  Quel dinanzi: «Or accorri, accorri, morte!».
E l'altro, cui pareva tardar troppo,
gridava: «Lano, sì non furo accorte                         120
  le gambe tue a le giostre dal Toppo!».
E poi che forse li fallia la lena,
di sé e d'un cespuglio fece un groppo.                      123 
 
 
 
 
 
 
 
Di rietro a loro era la selva piena
di nere cagne, bramose e correnti
come veltri ch'uscisser di catena.                          126
  In quel che s'appiattò miser li denti,
e quel dilaceraro a brano a brano;
poi sen portar quelle membra dolenti.                       129
  Presemi allor la mia scorta per mano,
e menommi al cespuglio che piangea,
per le rotture sanguinenti in vano.                         132
  «O Iacopo», dicea, «da Santo Andrea,
che t'è giovato di me fare schermo?
che colpa ho io de la tua vita rea?».                       135
  Quando 'l maestro fu sovr'esso fermo,
disse: «Chi fosti, che per tante punte
soffi con sangue doloroso sermo?».                          138
  Ed elli a noi: «O anime che giunte
siete a veder lo strazio disonesto
c'ha le mie fronde sì da me disgiunte,                      141
  raccoglietele al piè del tristo cesto.
I' fui de la città che nel Batista
mutò 'l primo padrone; ond'ei per questo                    144
  sempre con l'arte sua la farà trista;
e se non fosse che 'n sul passo d'Arno
rimane ancor di lui alcuna vista,                           147
  que' cittadin che poi la rifondarno
sovra 'l cener che d'Attila rimase,
avrebber fatto lavorare indarno.                            150
  Io fei gibbetto a me de le mie case».


  http://laspada.altervista.org/wp-content/uploads/2016/01/DIVCOMMpurg_13.pdf

 

 

Parafrasi del Canto XIII del Purgatorio – Seconda cornice del Purgatorio che accoglie le anime di coloro che in vita furono invidiosi: ricoperti di ruvido cilicio, hanno le palpebre cucite con filo di ferro e sono ricoperti da un mantello del colore della roccia. Il sommo poeta incontra Sapìa.

Leggi il testo del canto 13 (XIII) del Purgatorio di Dante


Io e Virgilio eravamo giunti in cima alla scala,
là dove per la seconda volta è tagliato tutto intorno il monte
del Purgatorio, che purifica dai peccati chi lo scala.

In quel punto una cornice circonda
la montagna, così come faceva la prima cornice;
se non per il fatto che la sua curva è più stretta.

Non c’è lì né ombra né traccia alcuna che appaia alla vista:
appaiono soltanto la parete del monte e la nuda strada,
nel colore livido della pietra.

“Se aspettiamo qui l’arrivo di qualche anima per chiedere la
direzione da prendere”, ragionava Virgilio, “temo che forse
la nostra decisione verrà ritardata troppo.”

Fissò poi lo sguardo sul sole;
fece perno sul lato destro del suo corpo,
e girò la parte sinistra in quella direzione.

“O dolce luce, per fiducia nella quale io intraprendo
il cammino in questo territorio ignoto, guidaci”,
disse, “come conviene essere guidati in questo regno.

Tu riscaldi il mondo, tu risplendi sopra di esso;
se nessun altro motivo ci spinge in un’altra direzione,
i tuoi raggi devono essere sempre la nostra guida.”

Un distanza pari a quella che sulla terra corrisponde al miglio
avevamo già percorso lungo quel sentiero,
in breve tempo, tanta era la nostra volontà di salire;

quando udimmo volare verso di noi,
senza però riuscire a vederli, spiriti che con le loro parole
ci lanciavano cortesi inviti alla mensa dell’amore divino.

La prima voce che passò volando
sopra di noi disse “Non hanno vino”, e continuò
a ripeterlo anche dietro a noi, dopo averci superato.

E prima che il suo suono non fosse più udibile
per la distanza, un’altra “Io sono Oreste” gridò
passando oltre, ed anche questa non si interruppe.

Chiesi a Virgilio “Padre, che voci sono queste che sentiamo?”
E non appena ebbi formulato la domanda, ecco passare una
terza voce che disse: “Amate coloro dai quali avete ricevuto del male”.

Il mio buon maestro mi rispose: “Questa cornice purifica
la colpa dell’invidia, e per questo motivo
gli incitamenti alla purificazione sono esempi d’amore.

Il freno che trattiene dal peccato è rappresentato da frasi di
senso opposto; credo che udirai esempi di invidia punita
prima di arrivare al passaggio che porta alla cornice successiva.

Ma guarda attentamente dinnanzi a te:
vedrai davanti a noi delle anime sedute,
ciascuna appoggiata alla parete rocciosa del monte.”

 

 

Aprii allora gli occhi più di prima;
guardai dinnanzi a me e vidi spiriti coperti da mantelli
di colore identico a quello della pietra.

E dopo che fummo avanzati ancora un poco,
li sentii gridare: “Maria, prega per noi”:
e li sentii invocare “Michele”, “Pietro” e “Tutti i santi”.

Non credo che esista sulla terra
un uomo tanto spietato da non provare
compassione alla vista di ciò che vidi subito dopo;

perché, quando fui giunto vicino a loro abbastanza
da riuscire a distinguere chiaramente la loro condizione,
il profondo dolore che provai mi costrinse a versare lacrime.

Mi apparvero ricoperti da un ruvido cilicio,
e si sostenevano l’un l’altro con la spalla,
e tutti erano sorretti dalla parete.

Questo stesso atteggiamento viene assunto dai ciechi, a cui
manca il necessario per vivere, durante le feste religiose per
chiedere l’elemosina, ed ognuno tiene il capo chino sul proprio vicino,

così da riuscire a suscitare pietà nelle altre persone,
non solo con il lamento delle loro parole,
ma anche con il loro aspetto, che non ne ispira di meno.

E come ai ciechi non arriva la luce del sole,
così agli spiriti di questa cornice, di cui sto parlando ora,
la luce del sole non si concede;

poiché un filo di ferro attraversa le palpebre di tutte le anime
cucendole, così come viene fatto con gli sparvieri selvaggi
perché non stanno tranquilli.

Mi sembrava, camminando oltre, di fare una scortesia,
perché io li vedevo senza essere visto a mia volta:
mi voltai pertanto verso il mio saggio consigliere.

Egli aveva già ben compreso che cosa significasse il mio
silenzio; non attese perciò la mia domanda
ma mi disse subito: “Parla loro, in modo breve ma efficace”.

Virgilio procedeva al mio fianco da quella parte
della cornice da cui si può cadere giù,
non essendo circondata da nessuna sponda;

dall’altra parte si trovavano le anime devote,
intente a pregare, le cui lacrime spingevano contro
l’orribile cucitura tanto da riuscire infine a bagnare le guance.

Mi rivolsi loro e “O anime sicure”,
cominciai a dire, “di vedere Dio, unico
desiderio di cui vi curate,

possa la Grazia divina detergere subito dalle scorie
del peccato la vostra coscienza, così che limpido,
attraverso di essa, possa scorrere il fiume della memoria,

 

 

ditemi, perché sarebbe per me cosa molto gradita,
se si trova tra di voi una anima italiana;
e forse per lei sarà un bene se lo vengo a sapere.”

“Fratello mio, ognuna di queste anime è cittadina
dell’unica vera città, quella di Dio; ma tu intendi dire
che visse in Italia quando fu al mondo.”

Queste parole mi sembrò di udire per risposta,
provenienti da un luogo poco oltre a dove mi trovavo,
feci pertanto sentire la mia voce ancora più in là.

Tre le altre, vidi uno spirito nell’atteggiamento di chi aspetta;
e se qualcuno domandasse quale fosse tale atteggiamento,
teneva il mento sollevato come fanno i ciechi.

Gli dissi: “Spirito, che per salire in cielo ti sottometti a queste
pene, se sei colui che mi ha risposto, fatti conoscere,
dicendomi o il tuo luogo di nascita o il tuo nome.”

Rispose l’invidioso: “Fui un abitante di Siena, e con queste
altre anime pongo qui rimedio alla mia vita colpevole,
implorando con le lacrime Dio perché si conceda a noi.

Non fui saggia in vita, nonostante che Sapìa (Savia)
fosse il mio nome, e fui delle disgrazie altrui
molto più contenta che della mia buona sorte.

E perché tu non creda che io non ti stia dicendo la verità,
ascolta come fui, come ti racconterò, sconsiderata,
quando ero già nella seconda parte della mia vita.

I miei concittadini si trovavano a Colle di Val d’elsa
intenti in uno scontro con i loro avversari, i fiorentini, ed io
pregavo Dio perché accadesse ciò che in effetti volle, e accadde.

I senesi furono sbaragliati e costretti a percorrere l’amara
via della fuga; e vedendoli inseguiti dai vincitori,
provai una gioia che non era paragonabile a nessuna altra,

tanto che in tono di sfida rivolsi al cielo il mio viso,
e gridai a Dio: “Ormai non ho più paura di te!”,
come fa il merlo che in inverno canta l’arrivo della primavera dopo solo pochi giorni di sole.

Mi riappacificai con Dio quando ero oramai alla fine
della mia vita; e non sarebbe ancora diminuito il mio giusto
debito con lui grazie alla penitenza che sto subendo,

se non fosse che mi ricordò
nelle sue devote preghiere Pier Pettinaio,
al quale, per la sua bontà, dispiacque per me.

Ma dimmi adesso che sei tu, che le nostre condizioni
ci chiedi, che hai gli occhi liberi dal filo di ferro,
come immagino che sia, e che parli respirando?”

Gli risposi “Anche a me sarà tolta qui la vista,
ma solo per un breve periodo, perché sono poche le volte
che l’ho usata erroneamente con l’invidia.

 

 

Maggiore è la paura che attanaglia la mia anima
per il tormento della prima cornice, tanto che già
mi sembra di sentire addosso il peso che si porta laggiù”.

Mi domando ancora Sapìa: “Chi ti ha allora condotto
qua su tra noi, se sei convinto di ritornare di sotto?”
Ed io risposi: “Costui che è qui con me ma non parla.

Sappi anche che sono vivo; chiedimelo perciò pure,
spirito eletto, se tu vuoi che io agisca
in tuo favore una volta tornato sulla terra.”

“Questa è una notizia mai sentita prima”,
esclamò l’anima, “un enorme indizio dell’amore che Dio prova per te;
aiutami perciò tu stesso qualche volta con le tue preghiere.

E ti chiedo anche, in nome di ciò che più desideri (la salvezza
eterna), se mai passerai per la Toscana,
di restituirmi una buona fama presso i miei parenti.

Tu li potrai trovare tra quella gente sciocca, i senesi,
che spera nel porto di Talamone, e ci perderanno in ciò
più speranza di quelli che cercarono invano il fiume Diana;

ma più di loro vi perderanno i loro ammiragli.”

lunedì 19 aprile 2021

Cultural Linguistics,

  https://link.springer.com/content/pdf/10.1186/s40862-016-0011-x.pdf

 

In this interview Professor Farzad Sharifian, a pioneer of Cultural Linguistics, gives a concise history of this relatively new field, which he introduces as a multidisciplinary area of research that examines the intricate relationship between language and cultural conceptualizations. Prof. Sharifian asserts this flourishing field of research can be applied in areas such as intercultural communication, cross-cultural pragmatics,language and politics, and World Englishes. He believes Cultural Linguistics has important implications for the practice of English Language Teaching (ELT) too,especially for Teaching English as an International Language (TEIL). Professor Sharifian also touches on the notion ofmetacultural competenceand how new communication technology can help language learners develop that competence.He concludes by saying that the English as an International Language and World Englishes paradigms require us to revisit how we define and assess language proficiency and that intercultural communication skills should constitute the heart of the new definitions and assessment procedures. 

Keywords:Cultural linguistics, Farzad Sharifian, Cultural conceptualizations,Metacultural competence, World Englishes, English as an international language

Cultural Linguistics and metacultural competence in foreign language education

 English has become increasingly localised by many communities of speakers around the world, adopting it to encode and express their cultural conceptualisations, a process which may be called glocalisation of the language.

The glocalisation of English and the dynamics of increased contact between people from different cultural backgrounds, or transcultural mobility, call for new notions of ‘competence’ to be applied to successful intercultural communication. In this paper, I focus on the notion of metacultural competence, from the perspective of Cultural Linguistics, and explain how such competence can be developed as part of learning English as an International Language (EIL). Cultural Linguistics is a discipline with multidisciplinary origins exploring the relationship between language, culture, and conceptualisation. The analytical tools of Cultural Linguistics are conceptual structures such as cultural schemas, cultural categories, and cultural metaphors, collectively referred to as cultural conceptualisations. The paper provides examples of cultural conceptualisations from Chinese English and Hong Kong English. It also explores different aspects of metacultural competence. Metacultural competence enables interlocutors to consciously engage in successfully communicating and negotiating their cultural conceptualisations during intercultural communication. I argue that EIL curricula should provide opportunities for learners to develop this competence and expose them to the conceptual variation that characterises the English language in today’s globalised world. Exposure to a variety of cultural conceptualisations in learning an L2 is likely to expand a learner’s conceptual horizon, where one can become familiar with, and even have the option of internalising, new systems of conceptualising experience.

Introduction

The last two decades have witnessed the development of an ever more complex relationship between the English language and globalisation. Graddol (1997) argues that economic globalisation has encouraged the global spread of English, while the global spread of English has also encouraged globalisation. In a more recent publication, he goes on to observe that “English is now redefining national and individual identities worldwide, shifting political fault lines, creating new global patterns of wealth and social exclusion, and suggesting new notions of human rights and responsibilities of citizenship” (Graddol 2006, 12).

Increasingly, as globalisation and the new technology continue to bring people from different cultural and linguistic backgrounds closer together, the default form of communication in everyday life for many people is becoming instances of intercultural communication. This phenomenon has attracted a significant degree of scholarly attention, leading to various proposals for the ‘competencies’ that are now required for successful intercultural communication. In particular in the area of foreign language education, scholars have realised that the main goal in teaching languages should shift away from its focus on the development of native-speaker competence towards more realistic competencies to facilitate communication between speakers from a wide range of cultural backgrounds.

Around two billion people are now using English around the world and English has an official role in more than 70 countries and territories (Crystal 1997). More than 80% of communication English in the world is now between so-called “non-native” speakers of the language. Graddol (2006, 87) observes that “an inexorable trend in the use of global English is that fewer interactions now involve a native-speaker.” The majority of international travels are from non-English speaking countries to non-English speaking countries, requiring the use of an international language, which is in most cases English. The globalisation of English and its rapid use among communities of speakers around the world has led the localisation of the language and the development of many varieties of English, a process that may be referred to as the glocalisation of English (Sharifian 2010), and it continues to do so. One of the implications of this development is for the concept of “native speaker”. Now people who were traditionally considered to be non-native speakers of English are in many cases native speakers of the newly developed, localised varieties, such as Chinese English, Hong Kong English, Japanese English, etc.

Some people learn other languages as their L1 and move to an English speaking country after some years, for example as teenagers, and in time come to use English very competently and as a dominant language of communication. For such speakers, self-identification either as native speaker or not may relate more to their perception of identity rather than on a linguistic ground (e.g., Brutt-Griffler and Samimy 2001). Also, in countries such as Singapore, India, and Malaysia, some people use English as the main language of communication, even at home, and in fact in the available literature of World Englishes these speakers are considered as native speakers of English (e.g., Kirkpatrick 2007). It is also worth noting that in many contexts that have traditionally been considered as English as a Foreign Language (EFL), exposure to English and resources available for learning English were limited. However, now thanks to the new technology and satellite, learners have at their disposal access to many sources for exposure to learning and interacting with other speakers in English, which has significant implication for their development of fluency and competency in English.

But only part of the complexity of the concept of ‘native speaker’ is due to the increase in the number of non-native speakers. New technology has also in some ways influenced the ways in which competence in the use of language is viewed. For example, when it comes to what Crystal (2001) calls netspeak, it is not just the knowledge of the language but expertise in the use of the technology that determines one’s level of competence in the use of language. Pasfield-Neofitou (2012), for example, refers to the concept of digital natives in association with those who have gained advanced levels of technological skills and who, therefore, prove to be more competent communicators in cyber contexts.

The observations made so far in this section make native-speaker models of English Language Teaching (ELT) rather irrelevant in the globalised era of learning English for international communication, where the majority of communication is between non-native speakers of English and where as Graddol (2006, 110) puts it “Global [spread of] English has led to a crisis of terminology. The distinctions between ‘native speaker’, ‘second-language speaker’, and ‘foreign-language user’ have become blurred”. Observations such as the ones made in this section overall leads Graddol (2006, 11) to maintain that English is now “a new phenomenon, and if it represents any kind of triumph it is probably not a cause for celebration by native speakers”. The observations made so far in this section have provoked questioning of the main objectives in teaching English as an L2. In fact, the paradigm of English as an International Language (EIL) has emerged as a response to these demographic, and consequential structural changes in the use of English as a world language (e.g., Alsagoff et al. 2012;Matsuda 2012;McKay 2002;Sharifian 2009). For EIL, the main aim of language teaching is to facilitate the development of skills and competencies to prepare learners for engaging in intercultural communication with speakers from a wide range of cultural backgrounds. In the following section, the paper presents some background on the various notions of ‘competence’ that have been proposed in relation to learning and teaching foreign languages.

‘Competence’ in foreign language education

During the 1980s, a number of applied linguists found the notion of communicative competence, as defined by Hymes (1972), beneficial in ELT (e.g., Canale and Swain 1980). Hymes’ proposal for communicative competence was a reaction against Chomsky’s notion of ‘linguistic competence’, and the distinction he made between linguistic ‘competence’ and linguistic ‘performance’. For Hymes, Chomsky’s view of linguistic competence was too narrow because it ignored the sociocultural features that define appropriate language use. Hymes argued that knowledge of language not only includes knowledge of language structure, but also knowledge of how to use language appropriately depending on who we are communicating with, about what, and in what context. Hymes called this revised view of the knowledge of language competence communicative competence. In ELT, those who borrowed Hymes’ notion of communicative competence and set it up as the main aim in language teaching, viewed ‘competence’ as the competence of the native speakers of English. That is, norms of appropriate language use that lie at the heart of the communicative competence L2 learners of English were encouraged to acquire were the norms associated with native speaker varieties of English, mainly idealised versions of American English and British English (e.g., Coperias Aguilar 2008).

By the 21st century, a number of scholars saw that since communication in today’s world has become ever more intercultural and multicultural in nature, speakers, both native speakers and non-native speakers, need intercultural communication skills. Thus, some scholars in the area of foreign language education became frustrated with the limitations with the native-speaker models of language teaching, and their narrow view of communicative competence. Several proposals have emerged in the last two decades suggesting more appropriate competencies. Michael Byram proposed the more inclusive notion of ‘intercultural communicative competence’ (ICC) (e.g., Byram 1997). For Byram (2000, 10), ICC involves the following five elements:

  •  Attitudes: curiosity and openness, readiness to suspend disbelief about other cultures and belief about one’s own.

  •  Knowledge: of social groups and their products and practices in one’s own and in one’s interlocutor’s country, and of the general processes of societal and individual interaction.

  •  Skills of interpreting and relating: ability to interpret a document or event from another culture, to explain it and relate it to documents from one’s own.

  •  Skills of discovery and interaction: ability to acquire new knowledge of a culture and cultural practices and the ability to operate knowledge, attitudes and skills under the constraints of real-time communication and interaction.

  •  Critical cultural awareness/political education: an ability to evaluate critically and on the basis of explicit criteria perspectives, practices and products in one’s own and other cultures and countries.

Clearly, Byram’s conception of ICC is very comprehensive and has the strength of recognising that success in intercultural communication requires a combination of attitudes, knowledge, skills, and critical awareness. I argue that often developing the right attitude towards ‘others’ and ‘other cultures’ is the most essential requirement for cross-cultural understanding and sympathy. It is necessary for smooth communication, but at the same time it is perhaps the most difficult to acquire. Despite its comprehensive approach, Byram’s model requires a great deal of fine-tuning in terms of the content of each component as well as suggestions for how each could be developed.

Another approach to competency in relation to learning English as an L2 has been proposed by Canagarajah (2006, 233), called multidialectal competence. Canagarajah notes the significant diversification of English, particularly the development of more and more varieties of English in recent decades. He reminds us that the notion of ‘proficiency’ and its assessment are much more complex in the postmodern era of communication. “In a context where we have to constantly shuttle between different varieties [of English] and communities, proficiency becomes complex. … One needs the capacity to negotiate diverse varieties to facilitate communication”, which to some extent involves what he calls “multidialectal competence”, part of which is “passive competence to understand new varieties [of English]”.

It should be noted here that it is not just the frequency of occurrence of intercultural communication that is growing fast. The nature of intercultural communication is also being influenced by the new “waves”, such as migration and human mobility associated with employment opportunities, as well as large scale movement of asylum seekers to other countries. For example, in many contexts intercultural communication is becoming multilingual. Interlocutors may share more than the knowledge of just one language and thus use two or more languages together (e.g., House and Rehbein 2004). In such contexts, code-switching becomes a prevalent phenomenon.

Kramsch (2008) notes a particular competency that is associated with language learning in multilingual contexts, which she calls ‘symbolic competence’. She describes symbolic competence as follows:

Social actors in multilingual settings, even if they are non-native speakers of the languages they use, seem to activate more than a communicative competence that would enable them to communicate accurately, effectively and appropriately with one another. They seem to display a particularly acute ability to play with various linguistic codes and with the various spatial and temporal resonances of these codes (400).

As mentioned above in this article, the heightened degree of contact between people from around the globe has led to an increase in multilingualism, and symbolic competence is a result of frequent contact between interlocutors speaking multiple languages in multilingual contexts. However, globalisation and the resultant increase in transcultural mobility, as well as the rapid growth in the use of international languages, such as English, have had another significant effect: the use of a common language by many speech communities to express and negotiate various systems of cultural conceptualisations, both for local and international communication. This phenomenon calls for another competency, which I call metacultural competence. The following section will provide background on cultural conceptualisations from the perspective of Cultural Linguistics.

Cultural Linguistics and cultural conceptualisations

Cultural Linguistics is a sub-branch of linguistics with a multidisciplinary origin which explores the relationship between language, culture, and conceptualisation (Palmer 1996;Sharifian 2011). The study of the relationship between language and conceptualisation gathered momentum with the development of cognitive linguistics during the 1980s. Cultural Linguistics shares with Cognitive Linguistics the view that language is grounded in human conceptual faculties but places a stronger emphasis on the cultural construction of the conceptualisations that serve as the basis for particularly the semantic and pragmatic components of language.

Cultural Linguistics views culture as a cognitive system, a view shared by cognitive anthropologists. It also views language as closely linked to culture. This view has its roots in several traditions in linguistic anthropology, including Boasian linguistics, ethnosemantics, and ethnography of speaking (for an extended discussion see Palmer 1996). By drawing on several disciplines including complexity science and distributed cognition, Cultural Linguistics has extended its theoretical basis, in particular the development of the notion of cultural cognition (Sharifian 2011) in recent years. The analytical tools of Cultural Linguistics are conceptual structures such as “cultural schema” (or cultural model), “cultural category” (including “cultural prototype”), and “cultural metaphor”. I have referred to these collectively as cultural conceptualisations (Sharifian 2003, 2008, 2011).

Cultural schemas are conceptual structures (or pools of knowledge heterogeneously shared by the members of a cultural group) that are culturally constructed and that upon which we draw when we communicate. They enable us to interpret and communicate knowledge, which is often and inescapably culturally mediated, as well as cultural experiences. Often the use of one word evokes knowledge and experiences that have a cultural basis in members of a speech community, and this serves as the basis for a significant degree of assumed shared understanding and inference. However, cultural schemas are not equally shared by members of a cultural group, and are constantly negotiated and renegotiated by the members across time and space. Thus, it is not possible to predict someone’s behaviour or their understanding of a message based on knowledge of cultural schemas as people internalise cultural schemas differently as they grow up among a cultural group.

Also, it is to be noted that an individual’s repertoire of conceptualisations may consist of the ones that are associated with their L1, or those they have access to as a result of living in particular cultural environments, or those developed from interacting with speakers from other cultures. The view of cultural conceptualisations presented here is a reaction to the essentialist views of culture which tend to stereotype people based on their cultural norms. The discussion presented in this paper explores language in relation to cultural conceptualisations and acknowledges that neither the knowledge of language nor cultural conceptualisations are unified across a speech community.

Cultural categories are those cognitive categories that have a cultural basis. Categorisation is one of the basic human cognitive processes and plays an important role in our cognitive development from early childhood. The human mind classifies objects, events, and experiences into categories based on similarities and differences, and we tend to take these categories for granted as we grow up (e.g., Mark et al. 1999). Although categorisation in early life tends to be rather idiosyncratic, that is, anything round may be categorised as a ball by a child, culture and language soon take over and guide us in our categorisation processes. Not only culture, through language, determines what categories we have available at our disposal, it also presents us with certain prototypes for those categories. For example, not only do we learn that a certain kind of food is categorised as ‘snack’, but we also learn what are the prototypical foods that usually come to mind when we think of the word ‘snack’.

Cultural conceptual metaphors are conceptual metaphors that have a root in cultural systems such as ethnomedical traditions, religion, and the like. Conceptual metaphors are defined as cognitive structures that allow us to understand one conceptual domain in terms of another (e.g., Lakoff and Johnson 1980). In varieties of English such as American English and British English, expressions such as ‘saving time’ and ‘spending time’ reflect conceptualisations of time as a commodity. Recent research in Cultural Linguistics has revealed that many conceptual metaphors originate from certain cultural basis. For example, some conceptual metaphors that use the human body as the source domain, such as heart as the seat of emotion, reflected in expressions such as ‘my heart goes out to him’, appear to have their origin in ethno-medical and other cultural traditions (e.g., Sharifian et al. 2008; Yu 2009).

Many features of human languages instantiate cultural conceptualisations. Inherent within the system of every language are categories, schemas, conceptual metaphors, and propensities for certain perspectives that reflect the cultural cognitions of those who have spoken the language from its beginnings. In particular, cultural conceptualisations feed into the semantic and pragmatic levels of meaning, providing speakers with pools of meaning which are to some extent shared across the community of speakers. In the following section, I present examples of cultural conceptualisations from Chinese English (also known as China English) and Hong Kong English and then go on to explore the notion of metacultural competence. It is to be noted that an attempt to characterise cultural conceptualisations that are encoded in language should not be interpreted as describing people, or stereotyping members of a cultural group. Cultural conceptualisations go beyond the level of individual members, in the sense that their existence is at the collective level of a group. As mentioned earlier, an individual’s cognitive pool of conceptualisations depends on their factors such as life experiences. Globalisation, for example, and people’s increasing experience of interculturality are leading to more and more contact between individuals who have access to different systems of cultural conceptualisations. Human mobility and living cross-culturally have increasingly led to individuals who have internalised elements from various systems of cultural conceptualisations.

Some cultural conceptualisations in Chinese English and Hong Kong English

As discussed earlier, the global spread of English has also entailed some demographic changes in the use of the language. It is now widely adopted as a means of communication by communities of speakers that have traditionally been identified as non-native speakers of the language. As mentioned earlier, this has led to further diversification and glocalisation of the language and the development of more world Englishes (Kachru 1986). In this section, I provide examples of the glocalisation of English in Chinese English and Hong Kong English.

The words ‘relation’, ‘relationship’, ‘connection’, and ‘networking’ are often used in Chinese English and Hong Kong English to refer to the Chinese cultural schema of guanxi. Many scholars have noticed the absence of the exact equivalent of the concept of guanxi in English and have offered various descriptions and definitions for it (e.g., Luo 2007; Farh et al. 1998). The schema relates to the complex dynamics of a particular type of interpersonal relationship in China. Luo (2007, 2) explains guanxi as follows:

The Chinese word “guanxi” refers to the concept of drawing on connections in order to secure favors in personal relations. It forms an intricate, pervasive relational network which the Chinese cultivate energetically, subtly, and imaginatively. It contains mutual obligations, assurances, and understanding, and governs Chinese attitudes towards long-term social and business relations.

Guanxi lies at the heart of life for many Chinese people to the extent that Luo (2007, 2) maintains that Chinese people “have turned guanxi into a calculated science”. Luo (2007, 3) even refers to guanxiology, a cross-disciplinary field of research that explores the formation, process, and the outcome of guanxi. Guanxi underlies many other concepts in Chinese and is closely interwoven with many other cultural schemas, such as that the Chinese cultural schema of mianzi ‘face’ (see Lee et al. 2001). For example, Lee et al. (2001, 55) maintain that “the underlying motives for reciprocal behaviours in guanxi is face saving”. A thorough treatment of the cultural schema of guanxi falls beyond the scope of this paper, but this brief explication should suffice in giving an example of cultural schema in an emerging variety of English. Further research is needed to explore the instantiations of the cultural schema of guanxi and its relevant schemas in Chinese English.

An example of cultural category in Chinese English and Hong Kong English is the use of the expression ‘moon cake’, which refers to a sweet cake in the shape of the moon which is filled with ingredients such as sesame seeds, beans, and duck eggs. There are many variants of moon cake made with different ingredients, with regional variations in taste and recipe. This cake is usually served during the mid-autumn festival, which is celebrated on the 15th of the eight lunar month, when the moon is supposed to be bright and full. There are different views about this festival, but according to one, it is a traditional harvest festival associated with worshiping and watching the moon. Some ingredients of moon cake represent certain aspects of the festival. For example, the yolk used in the moon cake represents the full moon. Eating moon cakes during the festival was traditionally associated with offerings to the Moon Goddess, but in modern days “people eat moon cakes to express their homesickness and love for their family members, and their hope for a bumper harvest and a happy life, as the moon cake symbolizes family reunion” (online source)a. Moon cakes are nowadays offered as presents to colleagues, family members, and friends.

Another example of a cultural category from Chinese English and Hong Kong English is ‘lucky money’, which refers to paper money that is placed inside red envelopes and given as gifts, particularly to children, during social and family occasions, such as the New Yearb. The envelope is red, a colour symbolising luck in Chinese culture which is also associated with fire as one of the traditional Five Elements in Chinese culture. In this capacity, it is believed to repel evil. There are certain cultural elements surrounding the gift of red envelopes. For example, the amount of money in the envelope should be dividable by two, because odd digits are associated with funerals. Sometimes, the lucky money and the red envelope are used metaphorically to refer to a bribe, associated with the underlying conceptualisation of a bribe is a gift (Cummings and Wolf 2011).

Another metaphor from Hong Kong English is the use of the expression “golden rice bowl” to refer to a secure high-paying job. This metaphor is based on the conceptualisation of a job is a food container (Cummings and Wolf 2011). In Hong Kong, the common cultural food is rice, which is usually served in a bowl and thus the use of “golden rice bowl” reflects a cultural artefact. The examples presented here should suffice to shed light on the notion of ‘cultural conceptualisations’. Lastly in this section, I reiterate that cultural conceptualisations are not equally shared by members of a speech community, and thus not everyone in Hong Kong shares the conceptualisations discussed in this section equally. Against this backdrop, the paper now focuses on exploring the notion of ‘metacultural competence’.

Metacultural competence

As I mentioned earlier, I use the term ‘metacultural competence’ to refer to a competence that enables interlocutors to communicate and negotiate their cultural conceptualisations during the process of intercultural communication. An important element of metacultural competence is conceptual variation awareness, or the awareness that one and the same language could be used by different speech communities to encode and express their respective cultural conceptualisations. As shown in the previous sections, communities of Chinese speakers in China and Hong Kong have used English words to encode their cultural conceptualisations.

Metacultural competence goes beyond the matter of awareness and involves the ability to use certain strategies, such as conceptual explication strategy, which is a conscious effort made on the part of interlocutors to clarify relevant conceptualisations with which they think other interlocutors may not be familiar. For example, Chinese English speakers may elaborate on the cultural schema of guanxi after they use English words such as ‘relationship’ if they are unsure their interlocutors are familiar with this Chinese cultural schema.

An important aspect of metacultural competence is that it enables interlocutors to negotiate intercultural meanings through the use of conceptual negotiation strategies. This would be reflected, for example, in seeking conceptual clarification when one feels that there might be more behind the use of a certain expression than is immediately apparent. An active gesture of interest in learning about other interlocutors’ cultural conceptualisations is an important factor in successful negotiation and communication of cultural conceptualisations and eventually in developing metacultural competence. It should be added that work on the notion of metacultural competence is still in its infancy and much more exploration and data analysis are needed to enrich this notion.

Metacultural competence and learning EIL

What is learning English as an International Language? Learning EIL refers to learning the fact that English is a pluricentric language which is now used across the globe by many speech communities that have adopted English and adapted it to express their characteristic communicative needs. In this sense, learning EIL requires exposure to the diversity that characterises the language at various levels, from the sound system to the deeper levels of semantic and pragmatic meanings that are entrenched cultural conceptualisations. This is in particular desirable for students with more advanced language proficiency, as at that stage exposure to diversity is less likely to cause confusion. This view of learning English may sound inconvenient to some teachers since it may demand effort on their part to expose their learners to more than one variety of English. However, such activities ensure that learners are exposed to the sociolinguistic reality of the use of English in today’s globalised world. Moreover, exposure to a variety of cultural conceptualisations in learning an L2 is likely to expand a learner’s conceptual horizon, where one can become familiar with, and even have the option of internalising, new systems of conceptualising experience.

In summary, learning EIL is no longer learning English as a language of its traditional native speakers, but a language for intercultural communication between speakers from various cultural backgrounds. The implications of this observation for ELT are paramount. For example, rather than spending a great deal of time training learners in gaining a particular accent, the emphasis should now be placed on intelligibility as well as developing intercultural communication skills. This is where the notion of metacultural competence becomes of pivotal importance. As discussed earlier, metacultural competence enables individuals to participate with flexibility in intercultural communication and effectively articulate and negotiate their cultural conceptualisations. Thus, ELT curricula should provide learners with opportunities to develop metacultural competence. To begin with, as discussed earlier, learners need to develop an awareness of conceptual variation that currently characterises the global use of English by many speech communities. ELT materials should include lessons about cultural conceptualisations associated with different varieties of English, such as the ones presented in this paper. Learners may also be provided with chances where they learn conceptual explication and conceptual negotiation strategies during naturally occurring communicative interactions. In this context, the cultural backgrounds of learners become assets and resources enabling them to reflect on their cultural conceptualisations, while allowing them to learn the necessary skills to explicate and negotiate them with speakers from other cultural backgrounds.

It should be noted here that one corollary of English bringing people from various cultural backgrounds closer together to communicate their cultural conceptualisations is the development of intercultural conceptualisations, or blending elements from already established cultural conceptualisations. This area requires much further research.

Concluding remarks

This paper observes that globalisation and the continued spread of English add to the complex interculturality of interactions between speakers. This produces an increase in conceptual variation associated with the increasing diversification of English. It argues, thus, that ELT curricula should aim at developing competencies in learners that enable them to achieve success in intercultural communication with speakers from various cultural backgrounds. The paper explores metacultural competence as a key competence that enables interlocutors to communicate and negotiate their cultural conceptualisations. It is argued that one way in which ELT curricula can expose learners to the sociocultural reality and the diversity that characterises the English language today is to present students with examples of cultural conceptualisations from multiple varieties of English. ELT pedagogy should also involve creating natural opportunities for learners to engage in reflecting and explicating their cultural conceptualisations. Although this proposal is at a very preliminary stage, I hope the arguments and the analyses presented in this paper make a convincing case for the changes and the adjustments that need to be made in order to teach English as an International Language.

Endnotes

a http://www.chinafacttours.com/facts/festivals/mid-autumn-festival.html

b http://www.infobarrel.com/The_Red_Envelope_-_A_Traditional_Chinese_Gift

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