Blog dedicato alla didattica della lingua e cultura italiana in senso antropologico, pragmatico e anche tradizionale.
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giovedì 11 giugno 2020
CHIEDERE SCUSA IN ITALIANO COME ATTIVITA' PRAGMATICA
DISCORSO PER FARE DELLE SCUSE
Situazioni per il DCT
Situazione 1 ‘risveglio’ (D-, P-)
Domenica sera sei uscito con i tuoi amici e sei tornato a casa tardi. Quando sei andato in cucina a farti un panino è caduto un piatto. Due minuti dopo vedi entrare il tuo coinquilino in pigiama. Rispondi alla sua replica. ‒ Hai visto che ore sono?‒ _____________________
Situazione 2 ‘cellulare’ (D+, P+)
Hai preso un autobus per arrivare in centro dall’aeroporto. Hai una valigia e uno zaino sulle spalle. Quando cerchi di prendere un posto urti un signore in giacca e cravatta quindi gli cade il cellulare per terra. Gli dici:‒ ____________
Situazione 3 ‘ritardo’ (D+, P-)
Ad un corso universitario il professore ha assegnato un lavoro di gruppo a te e a un altro studente. Per fare il compito insieme vi siete messi d’accordo per un appuntamento durante la settimana. Arrivi con mezz’ora di ritardo. Rispondi alla sua replica.‒ Ti aspetto già da un po’.‒ ____________________
Situazione 4 ‘valigia’ (D+, P-)
Sei sul treno. Hai messo la tua valigia sul portabagagli. Quando il treno parte, la valigia cade giù e colpisce un passeggero seduto. Dici:
Situazione 5 ‘libro’ (D-, P+)
Hai preso in prestito un libro da un professore che questo semestre tiene un corso obbligatorio. Ti aveva chiesto di restituirglielo oggi ma te ne sei completamente dimenticato. Quando lo vedi gli dici: ‒ ________
https://edizionicafoscari.unive.it/media/pdf/article/elle/2017/1/art-10.14277-2280-6792-ELLE-6-1-17-4_mcufpjO.pdf
mercoledì 10 giugno 2020
CINQUE LEZIONI SULLA DISTANZA CON L'AIUTO DELLA LETTERATURA
CINQUE LEZIONI SULLA DISTANZA CON L'AIUTO DELLA LETTERATURA
( traduzione mia del testo di Marc Porée)
https://theconversation.com/cinq-lecons-sur-la-distance-en-litterature-138996
Finché durerà la pandemia, dovremo accettare l'idea di vivere a distanza l'uno dall'altro. Il nuovo modus vivendi, che è ormai già nostro, si rivela inseparabile dal mantenimento di gesti volti alla protezione del nostro spazio e da altre misure di "distanziamento" fisico che, per la maggior parte di noi, erano del tutto sconosciute fino a poche ma lunghe settimane fa. Una ragione in più per tornare ad una forma di distanziamento che chiameremo "letteraria", ben nota agli specialisti del settore. Teorizzata da Brecht o Chklovski, implementata in Kafka o Proust, la distanza è indubbiamente insita nell'atto stesso di scrivere. A patto di aggiungerci, senza timore del paradosso, che la stessa letteratura rappresenti anche il miglior antidoto ai pericoli del distanziamento sociale.
Dimentichiamo per un attimo le librerie, le quali purtroppo non hanno avuto la possibilità di rimanere aperte durante il confinamento. Cerchiamo di non pensare troppo alla devastazione economica causata dalla crisi del corona virus per il mondo editoriale. Ricordiamoci che i libri ci tengono compagnia. È pur vero che più si frequenta la letteratura, più si è colpiti dalla portata del sapere insito nel testo letterario. La letteratura ci parla spesso della malattia, la morte, il lutto così come della vita ovviamente. Più sorprendente, è notare nella letteratura una conoscenza in termini di distanza e distanziamento.
Le leggi della prossemica
Nel 1966, l'antropologo canadese E.T. Hall gettò le basi per una nuova disciplina scientifica, la "prossemica", intesa come comprensione dell'uso dello spazio e delle distanze sociali. Il modo in cui occupiamo lo spazio quando siamo con gli altri è costitutivo della nostra identità è stato il punto di partenza del testo The Hidden Dimension. La "dimensione nascosta" del titolo è quella dello spazio vitale necessario per l'equilibrio di tutti gli esseri viventi, animali o umani. Nell'uomo questa dimensione diventa interamente culturale, poiché è correlata a una civiltà o una nazionalità.
Ciò che i francesi o gli italiani percepiscono come "vicino" o "distante" differisce, a volte in modo significativo, dalla percezione degli inglesi o dei nordamericani. Tra gli anglosassoni, il disagio è palpabile in caso di stretto contatto con il loro interlocutore, mentre i latini sembrano meno attenti al rigoroso rispetto dei confini della loro privacy - la distanza di sicurezza psicologica è fissata a 1,80 m negli Stati Uniti e nel Regno Unito, mentre è 1,50 metri in Germania e Belgio e 1 metro in Francia.
Ciò che si applica per le relazioni interpersonali, con le modalità della conversazione, si ritrova in termini di alloggio, di spostamenti, ecc. Fondamentalmente, Hall distingue sul piano fisico partendo da pochi centimetri a dieci metri, quattro tipi di distanza, dall'intimo al pubblico, ogni categoria viene valutata secondo due metodi (vicino e distante). Hall come uomo colto, coinvolge W.H. Auden o Thoreau o Kafka per appoggiare le sue grossolane analisi comparative. Hall non cita Isaac Asimov, il cui romanzo The Naked Sun, pubblicato nel 1956, mettendoci paura sembrava aver integrato in anticipo tutte le regole del distanziamento fisico e sociale di giorni odierni. Nel giro di due, tre mesi, la distopia immaginaria è diventata la nostra esistenza quotidiana.
Un mondo di distanziamento fisico
In uno spazio-tempo che è quello della fantascienza e dei cicli robotici, Asimov immagina un pianeta colonizzato, Solaria, i cui abitanti, educati dalla nascita nella fobia del minimo contatto, ufficialmente per paura delle infezioni microbiche, vivono nell'isolamento e scarico sui robot la cura di gestire le loro incombenti e vaste proprietà. I rapporti sessuali, rimasti ancora necessari per la procreazione, diventano una forma di lavoro ingrato. Invece, l'unica comunicazione accettata, di tipo olografico, viene compiuta senza pudore e l'esposizione della nudità è prassi quotidiana.
Il romanzo di Asimov, esulando dal suo contesto iniziale della guerra fredda, continua a parlarci. In particolare, avverte di possibili deviazioni, con accenni di discriminazione, di misure intese a combattere l'attuale crisi sanitaria.
Quando sappiamo che alcune categorie sociali sono più colpite di altre dal Covid-19, chissà se prima o poi non si cercherà di bandirle dallo spazio sociale per proteggersi a tutti i costi? È da temere che i messaggi martellati sui gesti di difesa per mantenere il distanziamento sociale da mettere in atto, l'ingiunzione, ripetuta ovunque, di mantenere le "sue" distanze, alla fine lasceranno il segno, rafforzando l'era del sospetto in cui siamo entrati.
Queste manovre di evitamento sociale che ci ritroviamo a mettere in pratica e che possano rimanere in atto sul lungo termine, diventano un campo impossibile da non trattare per la letteratura.
È inconcepibile, per come viene concepita la letteratura, che non si intrometta nel resistere alla pressione collettiva di "Viviamo a distanza l'uno dall'altro". Lo farà sotto forma di un racconto, di una una favola che si concentrerà, soprattutto, sulla schiacciante necessità di contatti che il confinamento ha portato alla luce negli animali sociali che siamo. Senza trascurare le giuste critiche - letterarie, ovviamente - di tutto ciò che è probabile che avvenga mascherato dalle contingenze, al riparo da misure opportunamente chiamate di "barriere". Niente di meglio della letteratura per combattere le distanze sociali in malafede.
L'Amore da lontano
Continuiamo con queste frasi famose che riempiono le storie della letteratura. "Chiudersi nella propria torre d'avorio" è certamente una frase famosa. Ma sappiamo che sia stato Sainte-Beuve, noto critico e poeta nel suo tempo libero ha comporre questa frase per evocare il carattere combattivo e pubblico di Victor Hugo, in opposizione a uno dei suoi contemporanei, Alfred de Vigny dicendo: "E Vigny, più segreto, / Come nella sua torre d'avorio, prima di mezzogiorno , faceva ritorno (1837). Questo concetto dovrebbe essere maggiormente ampliato, soprattutto alla luce di una letteratura altezzosa e disimpegnata da combattere in cui prevale la tendenza ad allontanarsi dalle vicissitudini del mondo.
Di tutt'altro genere è la formulazione attribuita al poeta troubadour dell'Aquitania Jaufré Rudel, nel XII secolo, in riferimento a "L’amour de loin" (amor de lonh). Il Principe di Blaye, Rudel si innamora della principessa di Tripoli di cui aveva sentito parlare. Quindi si arruola per compiere la seconda Crociata, si ammalò e morì tra le braccia della principessa che non aveva mai visto, alla quale aveva dedicato una buona parte della sua opera poetica.
A sua insaputa, Rudel avrà adoperato la poesia e la lirica amorosa nel suo viaggio, sulla scia di una apologia della distanza, associata alla divinizzazione dell'oggetto amato, collocata su un piedistallo. Un percorso ripido che sperimenterà una serie di momenti di massima elevazione: l'amore cortese tra la Signora e il suo trovatore; il Romanticismo del XIX secolo; ma anche la poesia di Breton e Aragon.
Un residuo di questo tropismo rimane in ciò che Vincent Kaufmann chiama "l'ambiguità epistolare" al lavoro ritrovata nella corrispondenza, di tipo amorosa, di Flaubert o Kafka. Sembrano richiamare a gran voce la presenza della persona amata, le loro lettere si nutrono, di fatto, della loro distanza, al punto da temere che il loro ritorno alla vicinanza, mettendo fine al pretesto della scrittura epistolare, sospenderebbe il sentimento di amore per loro. Si potrebbe credere che lo scrittore, mostruoso o disumano in questo, dia deliberatamente la preferenza, non all'incarnazione, ma alla distanza "grazie alla quale il testo letterario può compiersi" ...
È impossibile rendere più trasparente il desiderio di allungare l'attesa, di differire il più tardi possibile l'ottenimento del bacio ambito. E se la letteratura non facesse che compiere una tale operazione, vale a dire lasciarsi alle spalle un tempo che è esso stesso collocato tra desiderio e nostalgia? All'altra estremità della catena, arrivata all'ultima pagina del libro, la costatazione è la seguente: lo spazio può pur sempre lasciare il posto al "Tempo" (ultima parola del testo), ma la distanza non scompare; la distanza temporale, cessa di essere solo un intervallo, per segnare una rottura, per diventare di tipo ambientale, vacanze del mondo interiore in cui le epoche "così distanti" del Temps Retrouvé, e il mondo con esse, si depositano e si ricompongono tutte in una volta . La Recherche o la distanza come opera per eccellenza per Proust.
Per finire un'ultima cosa: la difesa e l'illustrazione della distanza in letteratura non invalida una scelta apparentemente opposta, quella della prossimità. Il vicino e il lontano, restano distanti all'unisono.
( traduzione mia del testo di Marc Porée)
https://theconversation.com/cinq-lecons-sur-la-distance-en-litterature-138996
Finché durerà la pandemia, dovremo accettare l'idea di vivere a distanza l'uno dall'altro. Il nuovo modus vivendi, che è ormai già nostro, si rivela inseparabile dal mantenimento di gesti volti alla protezione del nostro spazio e da altre misure di "distanziamento" fisico che, per la maggior parte di noi, erano del tutto sconosciute fino a poche ma lunghe settimane fa. Una ragione in più per tornare ad una forma di distanziamento che chiameremo "letteraria", ben nota agli specialisti del settore. Teorizzata da Brecht o Chklovski, implementata in Kafka o Proust, la distanza è indubbiamente insita nell'atto stesso di scrivere. A patto di aggiungerci, senza timore del paradosso, che la stessa letteratura rappresenti anche il miglior antidoto ai pericoli del distanziamento sociale.
Dimentichiamo per un attimo le librerie, le quali purtroppo non hanno avuto la possibilità di rimanere aperte durante il confinamento. Cerchiamo di non pensare troppo alla devastazione economica causata dalla crisi del corona virus per il mondo editoriale. Ricordiamoci che i libri ci tengono compagnia. È pur vero che più si frequenta la letteratura, più si è colpiti dalla portata del sapere insito nel testo letterario. La letteratura ci parla spesso della malattia, la morte, il lutto così come della vita ovviamente. Più sorprendente, è notare nella letteratura una conoscenza in termini di distanza e distanziamento.
Le leggi della prossemica
Nel 1966, l'antropologo canadese E.T. Hall gettò le basi per una nuova disciplina scientifica, la "prossemica", intesa come comprensione dell'uso dello spazio e delle distanze sociali. Il modo in cui occupiamo lo spazio quando siamo con gli altri è costitutivo della nostra identità è stato il punto di partenza del testo The Hidden Dimension. La "dimensione nascosta" del titolo è quella dello spazio vitale necessario per l'equilibrio di tutti gli esseri viventi, animali o umani. Nell'uomo questa dimensione diventa interamente culturale, poiché è correlata a una civiltà o una nazionalità.
Ciò che i francesi o gli italiani percepiscono come "vicino" o "distante" differisce, a volte in modo significativo, dalla percezione degli inglesi o dei nordamericani. Tra gli anglosassoni, il disagio è palpabile in caso di stretto contatto con il loro interlocutore, mentre i latini sembrano meno attenti al rigoroso rispetto dei confini della loro privacy - la distanza di sicurezza psicologica è fissata a 1,80 m negli Stati Uniti e nel Regno Unito, mentre è 1,50 metri in Germania e Belgio e 1 metro in Francia.
Ciò che si applica per le relazioni interpersonali, con le modalità della conversazione, si ritrova in termini di alloggio, di spostamenti, ecc. Fondamentalmente, Hall distingue sul piano fisico partendo da pochi centimetri a dieci metri, quattro tipi di distanza, dall'intimo al pubblico, ogni categoria viene valutata secondo due metodi (vicino e distante). Hall come uomo colto, coinvolge W.H. Auden o Thoreau o Kafka per appoggiare le sue grossolane analisi comparative. Hall non cita Isaac Asimov, il cui romanzo The Naked Sun, pubblicato nel 1956, mettendoci paura sembrava aver integrato in anticipo tutte le regole del distanziamento fisico e sociale di giorni odierni. Nel giro di due, tre mesi, la distopia immaginaria è diventata la nostra esistenza quotidiana.
Un mondo di distanziamento fisico
In uno spazio-tempo che è quello della fantascienza e dei cicli robotici, Asimov immagina un pianeta colonizzato, Solaria, i cui abitanti, educati dalla nascita nella fobia del minimo contatto, ufficialmente per paura delle infezioni microbiche, vivono nell'isolamento e scarico sui robot la cura di gestire le loro incombenti e vaste proprietà. I rapporti sessuali, rimasti ancora necessari per la procreazione, diventano una forma di lavoro ingrato. Invece, l'unica comunicazione accettata, di tipo olografico, viene compiuta senza pudore e l'esposizione della nudità è prassi quotidiana.
Il romanzo di Asimov, esulando dal suo contesto iniziale della guerra fredda, continua a parlarci. In particolare, avverte di possibili deviazioni, con accenni di discriminazione, di misure intese a combattere l'attuale crisi sanitaria.
Quando sappiamo che alcune categorie sociali sono più colpite di altre dal Covid-19, chissà se prima o poi non si cercherà di bandirle dallo spazio sociale per proteggersi a tutti i costi? È da temere che i messaggi martellati sui gesti di difesa per mantenere il distanziamento sociale da mettere in atto, l'ingiunzione, ripetuta ovunque, di mantenere le "sue" distanze, alla fine lasceranno il segno, rafforzando l'era del sospetto in cui siamo entrati.
Queste manovre di evitamento sociale che ci ritroviamo a mettere in pratica e che possano rimanere in atto sul lungo termine, diventano un campo impossibile da non trattare per la letteratura.
È inconcepibile, per come viene concepita la letteratura, che non si intrometta nel resistere alla pressione collettiva di "Viviamo a distanza l'uno dall'altro". Lo farà sotto forma di un racconto, di una una favola che si concentrerà, soprattutto, sulla schiacciante necessità di contatti che il confinamento ha portato alla luce negli animali sociali che siamo. Senza trascurare le giuste critiche - letterarie, ovviamente - di tutto ciò che è probabile che avvenga mascherato dalle contingenze, al riparo da misure opportunamente chiamate di "barriere". Niente di meglio della letteratura per combattere le distanze sociali in malafede.
L'Amore da lontano
Continuiamo con queste frasi famose che riempiono le storie della letteratura. "Chiudersi nella propria torre d'avorio" è certamente una frase famosa. Ma sappiamo che sia stato Sainte-Beuve, noto critico e poeta nel suo tempo libero ha comporre questa frase per evocare il carattere combattivo e pubblico di Victor Hugo, in opposizione a uno dei suoi contemporanei, Alfred de Vigny dicendo: "E Vigny, più segreto, / Come nella sua torre d'avorio, prima di mezzogiorno , faceva ritorno (1837). Questo concetto dovrebbe essere maggiormente ampliato, soprattutto alla luce di una letteratura altezzosa e disimpegnata da combattere in cui prevale la tendenza ad allontanarsi dalle vicissitudini del mondo.
Di tutt'altro genere è la formulazione attribuita al poeta troubadour dell'Aquitania Jaufré Rudel, nel XII secolo, in riferimento a "L’amour de loin" (amor de lonh). Il Principe di Blaye, Rudel si innamora della principessa di Tripoli di cui aveva sentito parlare. Quindi si arruola per compiere la seconda Crociata, si ammalò e morì tra le braccia della principessa che non aveva mai visto, alla quale aveva dedicato una buona parte della sua opera poetica.
A sua insaputa, Rudel avrà adoperato la poesia e la lirica amorosa nel suo viaggio, sulla scia di una apologia della distanza, associata alla divinizzazione dell'oggetto amato, collocata su un piedistallo. Un percorso ripido che sperimenterà una serie di momenti di massima elevazione: l'amore cortese tra la Signora e il suo trovatore; il Romanticismo del XIX secolo; ma anche la poesia di Breton e Aragon.
Un residuo di questo tropismo rimane in ciò che Vincent Kaufmann chiama "l'ambiguità epistolare" al lavoro ritrovata nella corrispondenza, di tipo amorosa, di Flaubert o Kafka. Sembrano richiamare a gran voce la presenza della persona amata, le loro lettere si nutrono, di fatto, della loro distanza, al punto da temere che il loro ritorno alla vicinanza, mettendo fine al pretesto della scrittura epistolare, sospenderebbe il sentimento di amore per loro. Si potrebbe credere che lo scrittore, mostruoso o disumano in questo, dia deliberatamente la preferenza, non all'incarnazione, ma alla distanza "grazie alla quale il testo letterario può compiersi" ...
Distacco e pensiero critico
Ansioso di rompere con la tradizione del teatro epico, secondo la tipologia di Aristotele, Berthold Brecht teorizzò dagli anni '36 in poi il Verfremdungseffekt, o effetto di distanziamento. Infatti, ha sollecitato agli spettatori delle sue opere di smetterla con l'empatia ("Glotzt nicht so romantisch"), ma anche con l'illusione referenziale e delle peripezie dell'azione drammatica. Tutto è buono per suscitare, nel pubblico ma anche tra gli attori, un salutare riflesso di distacco come preludio verso una consapevolezza critica.
Scollarsi dalla cosa che si vorrebbe imporre, svezzarsi dall'intrigo sentimentale, è l'obiettivo dichiarato. Di fronte allo spettacolo che provoca l'alienazione, si elabora uno "spettatore emancipato" (Rancière). Eliminando i croupier dal naturalismo borghese, il drammaturgo marxista usa il distanziamento, senza mai perdere di vista il rapporto della sua parola d'ordine con il manifesto dei formalisti russi. Già nel 1917, quest'ultimo, Viktor Shklovsky in primis, sosteneva lo stesso tipo di rottura creativa. Lo "straniamento", che implica l'allontanamento sia delle parole tribali sia della percezione di routine, ha effettivamente rivitalizzato la poesia moderna. Ma chi può seriamente credere che i poeti, russi o no, abbiano aspettato fino al 1917 per attuare la de-familiarizzazione degli usi della lingua e del mondo battezzato "ostranenia"?
Ansioso di rompere con la tradizione del teatro epico, secondo la tipologia di Aristotele, Berthold Brecht teorizzò dagli anni '36 in poi il Verfremdungseffekt, o effetto di distanziamento. Infatti, ha sollecitato agli spettatori delle sue opere di smetterla con l'empatia ("Glotzt nicht so romantisch"), ma anche con l'illusione referenziale e delle peripezie dell'azione drammatica. Tutto è buono per suscitare, nel pubblico ma anche tra gli attori, un salutare riflesso di distacco come preludio verso una consapevolezza critica.
Scollarsi dalla cosa che si vorrebbe imporre, svezzarsi dall'intrigo sentimentale, è l'obiettivo dichiarato. Di fronte allo spettacolo che provoca l'alienazione, si elabora uno "spettatore emancipato" (Rancière). Eliminando i croupier dal naturalismo borghese, il drammaturgo marxista usa il distanziamento, senza mai perdere di vista il rapporto della sua parola d'ordine con il manifesto dei formalisti russi. Già nel 1917, quest'ultimo, Viktor Shklovsky in primis, sosteneva lo stesso tipo di rottura creativa. Lo "straniamento", che implica l'allontanamento sia delle parole tribali sia della percezione di routine, ha effettivamente rivitalizzato la poesia moderna. Ma chi può seriamente credere che i poeti, russi o no, abbiano aspettato fino al 1917 per attuare la de-familiarizzazione degli usi della lingua e del mondo battezzato "ostranenia"?
Decantare il materiale dei ricordi
"Un'emozione ricordata nella tranquillità, nella quiete" ("emotion recollected in tranquillity"). Così la poesia è definita secondo William Wordsworth, il più proustiano dei poeti inglesi. È spesso a distanza dall'evento che il poeta si accampa, mescolando e decantando il materiale dei suoi ricordi. Né troppo vicino, né troppo lontano. Allontanandosi dal presente della scrittura, l'emozione si purifica dalla sua violenza e si converte in qualcos'altro, dove l'inquietudine non ha del tutto abbandonato il posto.
È vero, in generale, della poesia elegiaca, così come nella collezione di Michel Deguy,A ce qui n’en finit pas. Thrène (1995) stampato su pagine non numerate. La morte della moglie viene rimandata al limite della coscienza, dove la distanza diventa irrevocabile e la perdita irreparabile, e restituita nel presente ad una vedovanza chiamata a durare, interminabilmente. I romanzieri si ritrovano nella stessa barca quando si tratta di ripristinare l'impatto causato da un disastro, naturale o terroristico.
Dopo il crollo delle torri del World Trade Center e le milioni di visualizzazioni per l'anonimo uomo che salta da una delle finestre dell'edificio per cadere nel vuoto, saranno passati cinque anni prima che Don DeLillo possa farne una figura amata da lontano e un romanzo eponimo venuto fuori con la distanza del tempo.
"Un'emozione ricordata nella tranquillità, nella quiete" ("emotion recollected in tranquillity"). Così la poesia è definita secondo William Wordsworth, il più proustiano dei poeti inglesi. È spesso a distanza dall'evento che il poeta si accampa, mescolando e decantando il materiale dei suoi ricordi. Né troppo vicino, né troppo lontano. Allontanandosi dal presente della scrittura, l'emozione si purifica dalla sua violenza e si converte in qualcos'altro, dove l'inquietudine non ha del tutto abbandonato il posto.
È vero, in generale, della poesia elegiaca, così come nella collezione di Michel Deguy,A ce qui n’en finit pas. Thrène (1995) stampato su pagine non numerate. La morte della moglie viene rimandata al limite della coscienza, dove la distanza diventa irrevocabile e la perdita irreparabile, e restituita nel presente ad una vedovanza chiamata a durare, interminabilmente. I romanzieri si ritrovano nella stessa barca quando si tratta di ripristinare l'impatto causato da un disastro, naturale o terroristico.
Dopo il crollo delle torri del World Trade Center e le milioni di visualizzazioni per l'anonimo uomo che salta da una delle finestre dell'edificio per cadere nel vuoto, saranno passati cinque anni prima che Don DeLillo possa farne una figura amata da lontano e un romanzo eponimo venuto fuori con la distanza del tempo.
Tra desiderio e nostalgia
Finiamo con Marcel Proust, il più wordswordiano tra i romanzieri francesi. L'arco monumentale disegnato per la Recherche, dalla prima all'ultima frase del ciclo, parla di distanza e di ricordi. Sin dalle prime pagine, con l'evocazione del rito del coricarsi ("de bonne heure"), appare la tensione, nel narratore, tra desiderio di prossimità e desiderio di distanza. Ogni sera, quando torna l'ora di andare a letto, al pensiero del bacio che la madre di Marcel darà sulla sua guancia, prima di lasciarlo molto rapidamente, quest'ultimo sperimenta un misto di impazienza e apprensione: “molto prima del momento in cui avrei dovuto andare a letto e rimanere, senza dormire, lontano da mia madre e mia nonna ”. Questo dice tutto dell'ansia dell'abbandono, della temuta distanza dalla madre; ma il ripristino dell'agentività del desiderio tramite la scrittura prevale, come prova con quest'altra formulazione, al culmine del paradosso, anche qui: "In modo che questa buona sera che amavo così tanto, arrivavo a desiderare che arrivasse il più tardi possibile, per prolungare il tempo di riposo quando mia madre non era ancora venuta. "
Finiamo con Marcel Proust, il più wordswordiano tra i romanzieri francesi. L'arco monumentale disegnato per la Recherche, dalla prima all'ultima frase del ciclo, parla di distanza e di ricordi. Sin dalle prime pagine, con l'evocazione del rito del coricarsi ("de bonne heure"), appare la tensione, nel narratore, tra desiderio di prossimità e desiderio di distanza. Ogni sera, quando torna l'ora di andare a letto, al pensiero del bacio che la madre di Marcel darà sulla sua guancia, prima di lasciarlo molto rapidamente, quest'ultimo sperimenta un misto di impazienza e apprensione: “molto prima del momento in cui avrei dovuto andare a letto e rimanere, senza dormire, lontano da mia madre e mia nonna ”. Questo dice tutto dell'ansia dell'abbandono, della temuta distanza dalla madre; ma il ripristino dell'agentività del desiderio tramite la scrittura prevale, come prova con quest'altra formulazione, al culmine del paradosso, anche qui: "In modo che questa buona sera che amavo così tanto, arrivavo a desiderare che arrivasse il più tardi possibile, per prolungare il tempo di riposo quando mia madre non era ancora venuta. "
È impossibile rendere più trasparente il desiderio di allungare l'attesa, di differire il più tardi possibile l'ottenimento del bacio ambito. E se la letteratura non facesse che compiere una tale operazione, vale a dire lasciarsi alle spalle un tempo che è esso stesso collocato tra desiderio e nostalgia? All'altra estremità della catena, arrivata all'ultima pagina del libro, la costatazione è la seguente: lo spazio può pur sempre lasciare il posto al "Tempo" (ultima parola del testo), ma la distanza non scompare; la distanza temporale, cessa di essere solo un intervallo, per segnare una rottura, per diventare di tipo ambientale, vacanze del mondo interiore in cui le epoche "così distanti" del Temps Retrouvé, e il mondo con esse, si depositano e si ricompongono tutte in una volta . La Recherche o la distanza come opera per eccellenza per Proust.
Per finire un'ultima cosa: la difesa e l'illustrazione della distanza in letteratura non invalida una scelta apparentemente opposta, quella della prossimità. Il vicino e il lontano, restano distanti all'unisono.
lunedì 8 giugno 2020
MASSIMO CACCIARI: Ma il nostro destino è essere umili
Ma il nostro destino è essere umili
Le volontà egemoniche non appartengono alla storia del Paese. Come insegnano i grandi. Da Dante a Machiavelli, da Guicciardini a Leopardi
Non si agita soltanto sulle
vette della nostra storia letteraria, ma vive anche sulle piane del
nostro senso comune, un invincibile sentimento di amo et odi per
il Paese «là dove il sì suona». È bella l’Italia («Suso in Italia bella
giace un laco…»), eppure “prava” («In quella parte della terra
prava/italica…»); è il «giardin de lo imperio», eppure straziata da
discordie di ogni tipo, «nave senza nocchiere», tutta che piange, come
la sua Roma “vedova e sola”.
Un conflitto tra nostalgia e condanna, tra una bellezza che ci si ostina a credere presagio di meravigliose sorti e l’attuale miseria del suo stato, tra l’immagine della “nobilissima regio” che abitiamo e l’impotenza politica che l’affligge - autori e epoche, da Dante in poi, hanno avanzato le loro diverse diagnosi su questo stato di perenne crisi in cui sembra versare l’idea stessa di Italia, ma la “dominante” è una sola: la sua bellezza non salva, e tuttavia ad essa non possiamo cessare di volgere il nostro amore e le nostre speranze. Italiam fugientem …così la scorgeva il padre Enea avvicinandosi attraverso inenarrabili dolori alla terra che gli dèi gli avevano destinato. Italia che fugge - patria che tanto desideriamo, quanto sembra sempre attenderci oltre l’ultimo orizzonte.
Siamo così certi che sia questa una condizione assolutamente negativa, da superare e basta? Che in ciò consista il nostro limite fatale? Non aver una “solida” patria, non essere una nazione, animata da un solo spirito, vivere “dispersi” per tante città e tanti luoghi, senza “capitale”, manifestare tante usanze e consuetudini, ma non un ethos comune - certo, quando tutto ciò dà vita al più freddo egoismo, al cinismo per cui «non è infamante la colpa, ma la punizione» (Leopardi), che Italia fugga è solo un vizio, un male radicale, che condanna. Ma ancor più ci ha afflitto e impedito “il volo” continuare a pensare che l’Unità costituisca il rimedio, che il Modello sia quello di Francia con Parigi, di Prussia con Berlino, di Albione con Londra, il grande mito dello Stato. Italia che fugge …una patria “libera” dall’ossessione della patria potestas , una patria da ricercare sempre, di un amore che si alimenta amando, mai alla mèta, mai sicuro di sé, mai quieto possesso. Se la nostra destinazione, ciò cui la nostra storia ci destinava, fosse stata,e magari ancora fosse, di inventare e costituire una matria ? Accogliere in sé i distinti, riconoscerne la singolarità e federarli . Attraverso vincoli di amicizia .
La grande cultura italiana, maestra d’Europa, nasce nel segno di questa parola-chiave: si veda il Dante del “Convivio” e del ”De vulgari”. E amici si può essere soltanto tra liberi, coscienti che la stessa potenza di ciascuno dipende dalla solidità e operatività del rapporto con l’altro. La patria potestas sottomette per natura, e i popoli se ne dimostrano ogni giorno di più insofferenti; disiecta membra di piccole comunità locali possono magari distruggerla, ma senza nulla creare; la vivente complessità di luoghi, città, idiomi federati insieme - non potrebbe essere questa, invece, l’idea che germoglia sotto la maschera dell’Italia “che manca”? Complessità della città mediterranea, pensiero meridiano .
Non potrebbe l’Italia “che manca” far balenare agli occhi (se ancora ne dispone) dell’Europa proprio una tale idea?
Immaginazione soltanto? può darsi - ma è il nostro passato a ispirarla . E lo studio del passato diventa sedentaria erudizione quando non ispira a pensare in nuove forme il presente e ad agirvi. Certo, con tutta la consapevolezza dell’irripetibilità, e tutta la necessaria ironia . Un mosaico di popoli e tradizioni è l’Italia anche molto dopo la “conquista” romana; già all’alba della nostra storia esistono città dove queste distinte genti si incontrano e si assimilano, dove i culti si meticciano. Così nasce Roma stessa, concordia discors , asilo per «gente oscura e umile» proveniente da ogni luogo, «di una folla di gente d’ogni sorta, senza distinzione alcuna di liberi e servi» (Livio). Nessuna unità di sangue, di razza, ma costruzione razionale di un patto,di un foedus capace di riconoscere e tutelare ciascuno “salvando” così l’intero. Anche i più aspri conflitti vanno regolati verso una tale fine: l’Enea virgiliano rimane il vinto di Troia,e perciò mai arrogante, desideroso, anzi, di far partecipe lo sconfitto alla sua stessa vittoria. Vittorioso davvero è chi debella i superbi . L’Italia - così nei grandiosi versi danteschi - è rappresentata tanto dagli eroi troiani, quanto da quelli che li combatterono: per la “salute” di questa “umile Italia” «morì la vergine Cammilla/ Eurialo e Turno e Niso di ferute».
I grandi disegni provvidenzialistici, le volontà egemoniche volte ad “interrare” le differenze, la boria intellettuale di chi pretenderebbe di porre la storia sotto il segno esclusivo della Ragione, sono tratti alieni all’”umile Italia”. I suoi grandi dipingono l’effettuale; per quanto doloroso cercano di dire il vero, e il loro dire ha l’aspro suono dell’esperienza vissuta, del mestiere di vivere. Da Dante all’umanesimo tragico dell’Alberti, a Machiavelli, e forse ancor più a Guicciardini, al Leopardi, ma anche al Manzoni, è tutta una lezione di disincanto, di spes contra spem , di disprezzo feroce contro ogni retorica, ogni chiacchera vana su quei “valori” universali e eterni, che mai vengono lucidamente analizzati e tantomeno realizzati. Il genus italicum è una formidabile lezione sulla ipocrisia di politici e clerici, pur senza alcuna concessione al culto del “popolo” e della sua naturale“bontà”(la storia manzoniana della “colonna infame”!). Esso sa disilludere e demistificare, ma sa anche immaginare . Senza questa doppia virtù, senza questa Italia, l’Europa potrà sopravvivere soltanto nel segno della sua unica moneta, ma in hoc signo non vincerà su nessun campo.
Un conflitto tra nostalgia e condanna, tra una bellezza che ci si ostina a credere presagio di meravigliose sorti e l’attuale miseria del suo stato, tra l’immagine della “nobilissima regio” che abitiamo e l’impotenza politica che l’affligge - autori e epoche, da Dante in poi, hanno avanzato le loro diverse diagnosi su questo stato di perenne crisi in cui sembra versare l’idea stessa di Italia, ma la “dominante” è una sola: la sua bellezza non salva, e tuttavia ad essa non possiamo cessare di volgere il nostro amore e le nostre speranze. Italiam fugientem …così la scorgeva il padre Enea avvicinandosi attraverso inenarrabili dolori alla terra che gli dèi gli avevano destinato. Italia che fugge - patria che tanto desideriamo, quanto sembra sempre attenderci oltre l’ultimo orizzonte.
Siamo così certi che sia questa una condizione assolutamente negativa, da superare e basta? Che in ciò consista il nostro limite fatale? Non aver una “solida” patria, non essere una nazione, animata da un solo spirito, vivere “dispersi” per tante città e tanti luoghi, senza “capitale”, manifestare tante usanze e consuetudini, ma non un ethos comune - certo, quando tutto ciò dà vita al più freddo egoismo, al cinismo per cui «non è infamante la colpa, ma la punizione» (Leopardi), che Italia fugga è solo un vizio, un male radicale, che condanna. Ma ancor più ci ha afflitto e impedito “il volo” continuare a pensare che l’Unità costituisca il rimedio, che il Modello sia quello di Francia con Parigi, di Prussia con Berlino, di Albione con Londra, il grande mito dello Stato. Italia che fugge …una patria “libera” dall’ossessione della patria potestas , una patria da ricercare sempre, di un amore che si alimenta amando, mai alla mèta, mai sicuro di sé, mai quieto possesso. Se la nostra destinazione, ciò cui la nostra storia ci destinava, fosse stata,e magari ancora fosse, di inventare e costituire una matria ? Accogliere in sé i distinti, riconoscerne la singolarità e federarli . Attraverso vincoli di amicizia .
La grande cultura italiana, maestra d’Europa, nasce nel segno di questa parola-chiave: si veda il Dante del “Convivio” e del ”De vulgari”. E amici si può essere soltanto tra liberi, coscienti che la stessa potenza di ciascuno dipende dalla solidità e operatività del rapporto con l’altro. La patria potestas sottomette per natura, e i popoli se ne dimostrano ogni giorno di più insofferenti; disiecta membra di piccole comunità locali possono magari distruggerla, ma senza nulla creare; la vivente complessità di luoghi, città, idiomi federati insieme - non potrebbe essere questa, invece, l’idea che germoglia sotto la maschera dell’Italia “che manca”? Complessità della città mediterranea, pensiero meridiano .
Non potrebbe l’Italia “che manca” far balenare agli occhi (se ancora ne dispone) dell’Europa proprio una tale idea?
Immaginazione soltanto? può darsi - ma è il nostro passato a ispirarla . E lo studio del passato diventa sedentaria erudizione quando non ispira a pensare in nuove forme il presente e ad agirvi. Certo, con tutta la consapevolezza dell’irripetibilità, e tutta la necessaria ironia . Un mosaico di popoli e tradizioni è l’Italia anche molto dopo la “conquista” romana; già all’alba della nostra storia esistono città dove queste distinte genti si incontrano e si assimilano, dove i culti si meticciano. Così nasce Roma stessa, concordia discors , asilo per «gente oscura e umile» proveniente da ogni luogo, «di una folla di gente d’ogni sorta, senza distinzione alcuna di liberi e servi» (Livio). Nessuna unità di sangue, di razza, ma costruzione razionale di un patto,di un foedus capace di riconoscere e tutelare ciascuno “salvando” così l’intero. Anche i più aspri conflitti vanno regolati verso una tale fine: l’Enea virgiliano rimane il vinto di Troia,e perciò mai arrogante, desideroso, anzi, di far partecipe lo sconfitto alla sua stessa vittoria. Vittorioso davvero è chi debella i superbi . L’Italia - così nei grandiosi versi danteschi - è rappresentata tanto dagli eroi troiani, quanto da quelli che li combatterono: per la “salute” di questa “umile Italia” «morì la vergine Cammilla/ Eurialo e Turno e Niso di ferute».
I grandi disegni provvidenzialistici, le volontà egemoniche volte ad “interrare” le differenze, la boria intellettuale di chi pretenderebbe di porre la storia sotto il segno esclusivo della Ragione, sono tratti alieni all’”umile Italia”. I suoi grandi dipingono l’effettuale; per quanto doloroso cercano di dire il vero, e il loro dire ha l’aspro suono dell’esperienza vissuta, del mestiere di vivere. Da Dante all’umanesimo tragico dell’Alberti, a Machiavelli, e forse ancor più a Guicciardini, al Leopardi, ma anche al Manzoni, è tutta una lezione di disincanto, di spes contra spem , di disprezzo feroce contro ogni retorica, ogni chiacchera vana su quei “valori” universali e eterni, che mai vengono lucidamente analizzati e tantomeno realizzati. Il genus italicum è una formidabile lezione sulla ipocrisia di politici e clerici, pur senza alcuna concessione al culto del “popolo” e della sua naturale“bontà”(la storia manzoniana della “colonna infame”!). Esso sa disilludere e demistificare, ma sa anche immaginare . Senza questa doppia virtù, senza questa Italia, l’Europa potrà sopravvivere soltanto nel segno della sua unica moneta, ma in hoc signo non vincerà su nessun campo.
TESTO TRATTO DA
https://espresso.repubblica.it/opinioni/parole-nel-vuoto/2016/08/11/news/ma-il-nostro-destino-e-essere-umili-1.280129
lunedì 1 giugno 2020
LE PARTI DEL DISCORSO DI CECILIA POLETTO
https://www.unive.it/media/allegato/download/Lingue/Materiale_didattico_Poletto/0607_linguistica_italiana/sint2_categorie_verbo.pdf
LA NUOVA CULTURA DI VITTORINI NEL POLITECNICO
La società non è cultura perché la cultura non è società. E la cultura non è società perché ha in sé l’eterna rinuncia del “dare a Cesare” e perché i suoi principi sono soltanto consolatori, perché non sono tempestivamente rinnovatori ed efficacemente attuali, viventi con la società stessa come la società stessa vive. Potremo mai avere una cultura che sappia proteggere l’uomo dalle sofferenze invece di limitarsi a consolarlo? [...] Occuparsi del pane e del lavoro è ancora occuparsi dell’“anima”. Mentre non volere occuparsi che dell’“anima”lasciando a “Cesare” di occuparsi come gli fa comodo del pane e del lavoro, è limitarsi ad avere una funzione intellettuale e dar modo a “Cesare” (o a Donegani, a Pirelli, a Valletta) di avere una funzione di dominio “sull’anima” dell’uomo
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