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martedì 20 aprile 2021

Analisi culturale del Canto 13 del Purgatorio della Divina commedia di Dante Alighieri

Analisi culturale del Canto 13 del Purgatorio della Divina commedia di Dante Alighieri.

 

Il canto 13 riguarda la figura degli invidiosi che devono subire come punizione quella di ascoltare esempi di carità esaltata e di invidia punita. Nella concezione della Divina Commedia, l'invidia è un peccato contrario alla carità perché gli invidiosi non furono solidali con gli altri durante la loro vita. In termini culturali, la figura dell'invidioso è una persona che aderisce ampiamente alla dimensione di tipo " vincolati" perché non può dirsi felice, con la libertà di parola come non importante ( non può rivelare questo suo sentimento agli altri) ed è poco propenso nel ricordare le emozioni positive nella sua vita. La punizione per questi invidiosi viene individuata da parte di Dante nell'adesione alla virtù della Carità. In altre parole, la punizione per questi invidiosi si può collocare nella dimensione culturale di tipo " vincolati" così come nella dimensione culturale di tipo " debole evitamento dell'incertezza" perché dovranno accettare di vivere senza stress, accettare le giornate così come vengono, mostrando tolleranza verso le persone, le idee divergenti e con il bisogno di vedere gli altri come competenti.

 In questi versi del Canto 13, Virgilio si rivolge al sole come lume e guida da seguire costantemente da parte del poeta Dante, vale a dire il sole come maestro-guida è sicuramente un elemento in sintonia con la dimensione culturale di " alta distanza sociale dal potere" perché non ci è concesso di mettere in discussione gli insegnamenti provenienti dal maestro Sole. Nel canto 13, le virtù, da ricollegare alla dimensione di tipo " soddisfatti", e i vizi, di ricollocare nella dimensione di tipo "vincolati", non sono visibili ma vengono gridati, ossia sono in sintonia con la dimensione culturale di "forte evitamento dell'incertezza" perché il grido implica un bisogno di chiarezza testimoniato dagli esempi di carità. Nella concezione della Divina Commedia, l'invidia è frutto dell'amore sviato perché si rivolge al male e desidera il male del prossimo. Questa concezione di Dante mette in luce il tema dell'amore da tradurre in termini di dimensione culturale come un insieme di elementi riportati in questo modo:

- l'amore si colloca nella dimensione di "bassa distanza sociale con il potere" perché le decisioni vanno legittimate nell'amore;

- l'amore trova una forte presenza della dimensione culturale di " debole evitamento dell'incertezza" perché occorre essere tranquilli, vivere con poco stress, con tolleranza verso la differenza, a proprio agio con l'ambiguità, il caos e dove l'altro è visto come competente nella sua vita;

- l'amore è collegato alla dimensione culturale di tipo " collettivismo" perché l'amore richiede lealtà, un noi coscienzioso e una enfatizzazione dell'appartenenza;

- l'amore è anche in sintonia con la dimensione di tipo " femminilità" perché occorre un equilibrio tra la vita di famiglia e il lavoro;

- l'amore è in sintonia con la dimensione di tipo " orientamento temporale a lungo termine" perché i fatti più importanti devono succedere nel futuro, ci si adatta alle circostanze e si è guidati da compiti condivisi.

Per finire il tema dell'amore è legato alla dimensione di tipo " soddisfatti" perché ci si dice felici e si tende a volere ricordare delle emozioni positive.

Tutti questi punti menzionati per l'amore in termini culturali vengono "sviati" da parte degli invidiosi perché si rivolgono al " male" inteso come dimensione culturale di tipo " forte evitamento dell'incertezza" perché si è intolleranti verso gli altri. Inoltre, la ricerca del male altrui rientra nell'assenza della dimensione di tipo " collettivismo" perché è mancante un noi di tipo coscienzioso e prevale un " tutti devono badare a se stessi".

 Il contrappasso per gli invidiosi consiste nell'accecamento perché è la vista come senso che ha provocato il peccato ed è la carità, intesa come contrario dell'invidia, la soluzione per tornare sulla retta via. In altre parole, l'accecamento da parte degli invidiosi diventa una completa adesione alla dimensione culturale di tipo " vincolati" perché non possono dirsi felici e vivono con un sentimento di abbandono perché le cose non dipendono da noi.

 In questo canto, Dante incontra Sapia ( nobildonna di Siena), la quale narra del suo pentimento all'ultimo momento della sua vita e di come Pier Pettinaio ( concittadino di Sapia a Siena) abbia pregato per lei per farle conquistare il Purgatorio mostrando per lei quella carità che Sapia non ha avuto in vita.

 Il pentimento di Sapia è molto rilevante perché segnala un'adesione ad una dimensione di tipo " debole evitamento dell'incertezza" perché cambiare idea non è un problema. Poi ritroviamo la dimensione di tipo " individualismo" con un io di tipo coscienzioso e il compito è più importante delle relazioni. In aggiunta, abbiamo anche una presenza della dimensione culturale di tipo " orientamento a lungo termine" perché si è pronti al cambiamento e ci si adatta alle circostanze. Questo pentimento consente un ritorno alla dimensione di tipo " soddisfatti" perché si ha una libertà di parola come fatto importante e con una rinnovata sensazione di controllo della propria vita.

 In questi versi, la polemica verso i senesi diventa alla fine un'opera di carità animata dall'intento di risvegliare nella propria popolazione il proprio orgoglio. In altri termini, questa polemica di Sapia verso Siena può essere interpretata come un elemento di adesione alla dimensione di tipo " collettivismo" con un sentimento di appartenenza e con un noi di tipo coscienzioso. Questi  elementi della dimensione di tipo " collettivismo" si ricollegano allo stesso tempo con il sentimento dell'amore.

 Nei primi versi del canto 13 si raggiunge il vertice della montagna per purificarsi dal peccato, in altre parole questa montagna è priva di segni visibili ed è Virgilio che per indicare una guida guarda il sole per trovare la strada giusta. Il vertice della montagna privato di segni diventa un elemento di adesione ad una dimensione culturale di tipo " debole evitamento dell'incertezza" perché si è a proprio agio nell'ambiguità e nel caos. In questa situazione rientra il ruolo di Virgilio come guida in sintonia con una dimensione di tipo " alta distanza sociale dal potere" in cui è irrilevante legittimare i propri insegnamenti come suggerisce la lontananza del sole con la sua luce e i suoi raggi. Infatti, la luce diventa come il perno al quale affidarsi per intraprendere la strada, con il sole capace di riscaldare e fare splendere il mondo e i suoi raggi diventano la guida del cammino secondo il pensiero di Virgilio. In seguito, giunge il primo esempio di carità con una voce che ripeteva " non hanno vino", poi un'altra voce gridava " io sono Oreste" in modo continuo. In questi esempi vediamo come le ombre gridano come elemento di "forte evitamento dell'incertezza" perché è un modo per essere chiaro e privo di ambiguità di fronte ai peccato compiuti dagli invidiosi.

XXX Dante vuole sapere da Virgilio il senso di queste voci ma giunge una terza voce " amate coloro da cui avete ricevuto offese". Virgilio offre come risposta: in questo girone si punisce l'invidia con la frusta dell'amore. Le voci ci indicano il contrario dell'invidia in cui la pena degli invidiosi è quella di essere costretti a reggersi a vicenda seduti accanto alle pareti rocciose del monte. In questa punizione del "reggersi a vicenda" vediamo come gli invidiosi devono aderire ad una dimensione di tipo " collettivismo" con la presenza di un noi di tipo coscienzioso e l'enfatizzazione dell'appartenenza.

 Ulteriori voci gridano: " Maria prega per noi, Michele, Pietro e tutti i santi". Gli invidiosi diventano delle ombre che sono diventate cieche e sono prive del necessario per vivere, chiedono le indulgenze e l'elemosina davanti alle chiese e devono appoggiare la loro testa sulle spalle del vicino. Gli invidiosi sono privati della luce del sole come punizione e Dante chiede a Virgilio consigli quando vede queste ombre cieche senza essere visto da loro.  Queste ombre sono cieche, privi di luce e di mezzi sono tutti elementi per rientrare nella dimensione di tipo " vincolati" perché si è infelice, con un sentimento di abbandono e con poca propensione nel ricordare le emozioni positive.

Virgilio chiede a Dante di essere breve e chiaro nelle sue domande. Dante rivolge la parola a queste ombre invocando per loro la possibilità di rivedere la luce divina, la quale "grazia" possa dissolvere le impunità della vostra coscienza. Dante chiede alle ombre se esiste un'anima che parli italiano e tra le ombre una risponde: " o fratello mio, ciascun'anima è cittadina della città di Dio, ma quando ero pellegrina in terra vissi in Italia." Dante replica chiedendo a questo spirito di farsi riconoscere segnalando la sua patria o il suo nome".  In questa ricerca di un'ombra capace di parlare in italiano possiamo ritrovare un'adesione ad una dimensione di tipo " collettivismo" con la ricerca di un proprio "in-group" di appartenenza di fronte ad altre ombre intese come " out-group".

 Lo spirito rispose " io fui senese e insieme a questi altri pongo rimedio qui alla mia vita malvagia implorando Dio che si conceda a noi". L'ombra continua dicendo: " io non fui savia, anche se il mio nome è Sapia, e fui più lieta delle altrui disgrazie che della mia buona sorte. Sapia racconta come lei prese le parti contro la sua città durante la guerra pregando Dio per fare perdere la sua città. Sapia provò molta gioia nel vedere la sua città perdere. Lei gridò " ormai non ti temo più Dio". Soltanto alla fine della sua vita Sapia cerca di riconciliarsi con Dio in modo da ridurre il suo debito con il Signore. Saranno le preghiere di Pier Pettinaio a consentire a Sapia di ritrovarsi in Purgatorio. In questi versi vediamo incarnati gli elementi del pentimento inteso come un'adesione ad una dimensione di " debole evitamento dell'incertezza" con la capacità di modificare la propria opinione.

Dopo queste sue parole, Sapia chiederà chi fosse questa persona curiosa (Dante) delle loro condizioni. Anche Dante perderà per un breve periodo la vista per il suo breve e lieve peccato di invidia ma è soprattutto la cornice sottostante ad impaurire Dante con trepidazioni e senso di oppressione di fronte al peso del masso di quella cornice. Sapia vuole sapere chi ha portato Dante tra queste ombre se poi dovrà tornare nel mondo. Lo stesso Dante risponderà di essere accompagnato da una guida silenziosa come Virgilio. Per Sapia è un fatto straordinario quello che vive Dante perché è un segno che Virgilio lo ama e per questo motivo Sapia vuole che Dante preghi per lei. Poi Sapia chiede a Dante di ripristinare la sua rispettabilità presso i suoi parenti se avrà modo di ritornare in Toscana. Alla fine del canto, Sapia critica comunque la propria gente intesa come gente stolta che perderà la guerra. Alla fine di questi versi, Sapia chiede al poeta Dante di ridare "rispettabilità" alla sua persona presso i suoi parenti, ossia richiede una dimensione di tipo " collettivismo" enfatizzando l'appartenenza ad una città, con un noi coscienzioso e dove il ruolo delle relazioni diventa più importanti dei compiti all'interno della propria famiglia.

 
http://laspada.altervista.org/wp-content/uploads/2016/01/DIVCOMMpurg_13.pdf
 
 
 
Non era ancor di là Nesso arrivato,
quando noi ci mettemmo per un bosco
che da neun sentiero era segnato.                           3
  Non fronda verde, ma di color fosco;
non rami schietti, ma nodosi e 'nvolti;
non pomi v'eran, ma stecchi con tòsco.                      6
  Non han sì aspri sterpi né sì folti
quelle fiere selvagge che 'n odio hanno
tra Cecina e Corneto i luoghi cólti.                        9
  Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno,
che cacciar de le Strofade i Troiani
con tristo annunzio di futuro danno.                        12
  Ali hanno late, e colli e visi umani,
piè con artigli, e pennuto 'l gran ventre;
fanno lamenti in su li alberi strani.                       15
  E 'l buon maestro «Prima che più entre,
sappi che se' nel secondo girone»,
mi cominciò a dire, «e sarai mentre                         18
  che tu verrai ne l'orribil sabbione.
Però riguarda ben; sì vederai
cose che torrien fede al mio sermone».                      21
  Io sentia d'ogne parte trarre guai
e non vedea persona che 'l facesse;
per ch'io tutto smarrito m'arrestai.                        24
  Cred'ïo ch'ei credette ch'io credesse
che tante voci uscisser, tra quei bronchi
da gente che per noi si nascondesse.                        27
  Però disse 'l maestro: «Se tu tronchi
qualche fraschetta d'una d'este piante,
li pensier c'hai si faran tutti monchi».                    30
  Allor porsi la mano un poco avante
e colsi un ramicel da un gran pruno;
e 'l tronco suo gridò: «Perché mi schiante?».               33
  Da che fatto fu poi di sangue bruno,
ricominciò a dir: «Perché mi scerpi?
non hai tu spirto di pietade alcuno?                        36
  Uomini fummo, e or siam fatti sterpi:
ben dovrebb'esser la tua man più pia,
se state fossimo anime di serpi».                           39
  Come d'un stizzo verde ch'arso sia
da l'un de'capi, che da l'altro geme
e cigola per vento che va via,                              42
  sì de la scheggia rotta usciva insieme
parole e sangue; ond'io lasciai la cima
cadere, e stetti come l'uom che teme.                       45
  «S'elli avesse potuto creder prima»,
rispuose 'l savio mio, «anima lesa,
ciò c'ha veduto pur con la mia rima,                        48
  non averebbe in te la man distesa;
ma la cosa incredibile mi fece
indurlo ad ovra ch'a me stesso pesa.                        51
  Ma dilli chi tu fosti, sì che 'n vece
d'alcun'ammenda tua fama rinfreschi
nel mondo sù, dove tornar li lece».                         54
  E 'l tronco: «Sì col dolce dir m'adeschi,
ch'i' non posso tacere; e voi non gravi
perch'ïo un poco a ragionar m'inveschi.                     57
  Io son colui che tenni ambo le chiavi
del cor di Federigo, e che le volsi,
serrando e diserrando, sì soavi,                            60
  che dal secreto suo quasi ogn'uom tolsi:
fede portai al glorïoso offizio,
tanto ch'i' ne perde' li sonni e ' polsi.                   63
  La meretrice che mai da l'ospizio
di Cesare non torse li occhi putti,
morte comune e de le corti vizio,                           66
  infiammò contra me li animi tutti;
e li 'nfiammati infiammar sì Augusto,
che ' lieti onor tornaro in tristi lutti.                   69
  L'animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto.                          72
  Per le nove radici d'esto legno
vi giuro che già mai non ruppi fede
al mio segnor, che fu d'onor sì degno.                      75
  E se di voi alcun nel mondo riede,
conforti la memoria mia, che giace
ancor del colpo che 'nvidia le diede».                      78
  Un poco attese, e poi «Da ch'el si tace»,
disse 'l poeta a me, «non perder l'ora:
ma parla, e chiedi a lui, se più ti piace».                 81
  Ond'ïo a lui: «Domandal tu ancora
di quel che credi ch'a me satisfaccia;
ch'i' non potrei, tanta pietà m'accora».                    84
  Perciò ricominciò: «Se l'om ti faccia
liberamente ciò che 'l tuo dir priega,
spirito incarcerato, ancor ti piaccia                       87
  di dirne come l'anima si lega
in questi nocchi; e dinne, se tu puoi,
s'alcuna mai di tai membra si spiega».                      90
  Allor soffiò il tronco forte, e poi
si convertì quel vento in cotal voce:
«Brievemente sarà risposto a voi.                           93
  Quando si parte l'anima feroce
dal corpo ond'ella stessa s'è disvelta,
Minòs la manda a la settima foce.                           96
  Cade in la selva, e non l'è parte scelta;
ma là dove fortuna la balestra,
quivi germoglia come gran di spelta.                        99
  Surge in vermena e in pianta silvestra:
l'Arpie, pascendo poi de le sue foglie,
fanno dolore, e al dolor fenestra.                          102
  Come l'altre verrem per nostre spoglie,
ma non però ch'alcuna sen rivesta,
ché non è giusto aver ciò ch'om si toglie.                  105
  Qui le trascineremo, e per la mesta
selva saranno i nostri corpi appesi,
ciascuno al prun de l'ombra sua molesta».                   108
  Noi eravamo ancora al tronco attesi,
credendo ch'altro ne volesse dire,
quando noi fummo d'un romor sorpresi,                       111
  similemente a colui che venire
sente 'l porco e la caccia a la sua posta,
ch'ode le bestie, e le frasche stormire.                    114
  Ed ecco due da la sinistra costa,
nudi e graffiati, fuggendo sì forte,
che de la selva rompieno ogni rosta.                        117
  Quel dinanzi: «Or accorri, accorri, morte!».
E l'altro, cui pareva tardar troppo,
gridava: «Lano, sì non furo accorte                         120
  le gambe tue a le giostre dal Toppo!».
E poi che forse li fallia la lena,
di sé e d'un cespuglio fece un groppo.                      123 
 
 
 
 
 
 
 
Di rietro a loro era la selva piena
di nere cagne, bramose e correnti
come veltri ch'uscisser di catena.                          126
  In quel che s'appiattò miser li denti,
e quel dilaceraro a brano a brano;
poi sen portar quelle membra dolenti.                       129
  Presemi allor la mia scorta per mano,
e menommi al cespuglio che piangea,
per le rotture sanguinenti in vano.                         132
  «O Iacopo», dicea, «da Santo Andrea,
che t'è giovato di me fare schermo?
che colpa ho io de la tua vita rea?».                       135
  Quando 'l maestro fu sovr'esso fermo,
disse: «Chi fosti, che per tante punte
soffi con sangue doloroso sermo?».                          138
  Ed elli a noi: «O anime che giunte
siete a veder lo strazio disonesto
c'ha le mie fronde sì da me disgiunte,                      141
  raccoglietele al piè del tristo cesto.
I' fui de la città che nel Batista
mutò 'l primo padrone; ond'ei per questo                    144
  sempre con l'arte sua la farà trista;
e se non fosse che 'n sul passo d'Arno
rimane ancor di lui alcuna vista,                           147
  que' cittadin che poi la rifondarno
sovra 'l cener che d'Attila rimase,
avrebber fatto lavorare indarno.                            150
  Io fei gibbetto a me de le mie case».


  http://laspada.altervista.org/wp-content/uploads/2016/01/DIVCOMMpurg_13.pdf

 

 

Parafrasi del Canto XIII del Purgatorio – Seconda cornice del Purgatorio che accoglie le anime di coloro che in vita furono invidiosi: ricoperti di ruvido cilicio, hanno le palpebre cucite con filo di ferro e sono ricoperti da un mantello del colore della roccia. Il sommo poeta incontra Sapìa.

Leggi il testo del canto 13 (XIII) del Purgatorio di Dante


Io e Virgilio eravamo giunti in cima alla scala,
là dove per la seconda volta è tagliato tutto intorno il monte
del Purgatorio, che purifica dai peccati chi lo scala.

In quel punto una cornice circonda
la montagna, così come faceva la prima cornice;
se non per il fatto che la sua curva è più stretta.

Non c’è lì né ombra né traccia alcuna che appaia alla vista:
appaiono soltanto la parete del monte e la nuda strada,
nel colore livido della pietra.

“Se aspettiamo qui l’arrivo di qualche anima per chiedere la
direzione da prendere”, ragionava Virgilio, “temo che forse
la nostra decisione verrà ritardata troppo.”

Fissò poi lo sguardo sul sole;
fece perno sul lato destro del suo corpo,
e girò la parte sinistra in quella direzione.

“O dolce luce, per fiducia nella quale io intraprendo
il cammino in questo territorio ignoto, guidaci”,
disse, “come conviene essere guidati in questo regno.

Tu riscaldi il mondo, tu risplendi sopra di esso;
se nessun altro motivo ci spinge in un’altra direzione,
i tuoi raggi devono essere sempre la nostra guida.”

Un distanza pari a quella che sulla terra corrisponde al miglio
avevamo già percorso lungo quel sentiero,
in breve tempo, tanta era la nostra volontà di salire;

quando udimmo volare verso di noi,
senza però riuscire a vederli, spiriti che con le loro parole
ci lanciavano cortesi inviti alla mensa dell’amore divino.

La prima voce che passò volando
sopra di noi disse “Non hanno vino”, e continuò
a ripeterlo anche dietro a noi, dopo averci superato.

E prima che il suo suono non fosse più udibile
per la distanza, un’altra “Io sono Oreste” gridò
passando oltre, ed anche questa non si interruppe.

Chiesi a Virgilio “Padre, che voci sono queste che sentiamo?”
E non appena ebbi formulato la domanda, ecco passare una
terza voce che disse: “Amate coloro dai quali avete ricevuto del male”.

Il mio buon maestro mi rispose: “Questa cornice purifica
la colpa dell’invidia, e per questo motivo
gli incitamenti alla purificazione sono esempi d’amore.

Il freno che trattiene dal peccato è rappresentato da frasi di
senso opposto; credo che udirai esempi di invidia punita
prima di arrivare al passaggio che porta alla cornice successiva.

Ma guarda attentamente dinnanzi a te:
vedrai davanti a noi delle anime sedute,
ciascuna appoggiata alla parete rocciosa del monte.”

 

 

Aprii allora gli occhi più di prima;
guardai dinnanzi a me e vidi spiriti coperti da mantelli
di colore identico a quello della pietra.

E dopo che fummo avanzati ancora un poco,
li sentii gridare: “Maria, prega per noi”:
e li sentii invocare “Michele”, “Pietro” e “Tutti i santi”.

Non credo che esista sulla terra
un uomo tanto spietato da non provare
compassione alla vista di ciò che vidi subito dopo;

perché, quando fui giunto vicino a loro abbastanza
da riuscire a distinguere chiaramente la loro condizione,
il profondo dolore che provai mi costrinse a versare lacrime.

Mi apparvero ricoperti da un ruvido cilicio,
e si sostenevano l’un l’altro con la spalla,
e tutti erano sorretti dalla parete.

Questo stesso atteggiamento viene assunto dai ciechi, a cui
manca il necessario per vivere, durante le feste religiose per
chiedere l’elemosina, ed ognuno tiene il capo chino sul proprio vicino,

così da riuscire a suscitare pietà nelle altre persone,
non solo con il lamento delle loro parole,
ma anche con il loro aspetto, che non ne ispira di meno.

E come ai ciechi non arriva la luce del sole,
così agli spiriti di questa cornice, di cui sto parlando ora,
la luce del sole non si concede;

poiché un filo di ferro attraversa le palpebre di tutte le anime
cucendole, così come viene fatto con gli sparvieri selvaggi
perché non stanno tranquilli.

Mi sembrava, camminando oltre, di fare una scortesia,
perché io li vedevo senza essere visto a mia volta:
mi voltai pertanto verso il mio saggio consigliere.

Egli aveva già ben compreso che cosa significasse il mio
silenzio; non attese perciò la mia domanda
ma mi disse subito: “Parla loro, in modo breve ma efficace”.

Virgilio procedeva al mio fianco da quella parte
della cornice da cui si può cadere giù,
non essendo circondata da nessuna sponda;

dall’altra parte si trovavano le anime devote,
intente a pregare, le cui lacrime spingevano contro
l’orribile cucitura tanto da riuscire infine a bagnare le guance.

Mi rivolsi loro e “O anime sicure”,
cominciai a dire, “di vedere Dio, unico
desiderio di cui vi curate,

possa la Grazia divina detergere subito dalle scorie
del peccato la vostra coscienza, così che limpido,
attraverso di essa, possa scorrere il fiume della memoria,

 

 

ditemi, perché sarebbe per me cosa molto gradita,
se si trova tra di voi una anima italiana;
e forse per lei sarà un bene se lo vengo a sapere.”

“Fratello mio, ognuna di queste anime è cittadina
dell’unica vera città, quella di Dio; ma tu intendi dire
che visse in Italia quando fu al mondo.”

Queste parole mi sembrò di udire per risposta,
provenienti da un luogo poco oltre a dove mi trovavo,
feci pertanto sentire la mia voce ancora più in là.

Tre le altre, vidi uno spirito nell’atteggiamento di chi aspetta;
e se qualcuno domandasse quale fosse tale atteggiamento,
teneva il mento sollevato come fanno i ciechi.

Gli dissi: “Spirito, che per salire in cielo ti sottometti a queste
pene, se sei colui che mi ha risposto, fatti conoscere,
dicendomi o il tuo luogo di nascita o il tuo nome.”

Rispose l’invidioso: “Fui un abitante di Siena, e con queste
altre anime pongo qui rimedio alla mia vita colpevole,
implorando con le lacrime Dio perché si conceda a noi.

Non fui saggia in vita, nonostante che Sapìa (Savia)
fosse il mio nome, e fui delle disgrazie altrui
molto più contenta che della mia buona sorte.

E perché tu non creda che io non ti stia dicendo la verità,
ascolta come fui, come ti racconterò, sconsiderata,
quando ero già nella seconda parte della mia vita.

I miei concittadini si trovavano a Colle di Val d’elsa
intenti in uno scontro con i loro avversari, i fiorentini, ed io
pregavo Dio perché accadesse ciò che in effetti volle, e accadde.

I senesi furono sbaragliati e costretti a percorrere l’amara
via della fuga; e vedendoli inseguiti dai vincitori,
provai una gioia che non era paragonabile a nessuna altra,

tanto che in tono di sfida rivolsi al cielo il mio viso,
e gridai a Dio: “Ormai non ho più paura di te!”,
come fa il merlo che in inverno canta l’arrivo della primavera dopo solo pochi giorni di sole.

Mi riappacificai con Dio quando ero oramai alla fine
della mia vita; e non sarebbe ancora diminuito il mio giusto
debito con lui grazie alla penitenza che sto subendo,

se non fosse che mi ricordò
nelle sue devote preghiere Pier Pettinaio,
al quale, per la sua bontà, dispiacque per me.

Ma dimmi adesso che sei tu, che le nostre condizioni
ci chiedi, che hai gli occhi liberi dal filo di ferro,
come immagino che sia, e che parli respirando?”

Gli risposi “Anche a me sarà tolta qui la vista,
ma solo per un breve periodo, perché sono poche le volte
che l’ho usata erroneamente con l’invidia.

 

 

Maggiore è la paura che attanaglia la mia anima
per il tormento della prima cornice, tanto che già
mi sembra di sentire addosso il peso che si porta laggiù”.

Mi domando ancora Sapìa: “Chi ti ha allora condotto
qua su tra noi, se sei convinto di ritornare di sotto?”
Ed io risposi: “Costui che è qui con me ma non parla.

Sappi anche che sono vivo; chiedimelo perciò pure,
spirito eletto, se tu vuoi che io agisca
in tuo favore una volta tornato sulla terra.”

“Questa è una notizia mai sentita prima”,
esclamò l’anima, “un enorme indizio dell’amore che Dio prova per te;
aiutami perciò tu stesso qualche volta con le tue preghiere.

E ti chiedo anche, in nome di ciò che più desideri (la salvezza
eterna), se mai passerai per la Toscana,
di restituirmi una buona fama presso i miei parenti.

Tu li potrai trovare tra quella gente sciocca, i senesi,
che spera nel porto di Talamone, e ci perderanno in ciò
più speranza di quelli che cercarono invano il fiume Diana;

ma più di loro vi perderanno i loro ammiragli.”

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