Nell'Italia di oggi la questione dell'identità nazionale si colloca al punto di incontro e di scontro tra due grandi processi politici e culturali: da un lato il peso crescente attribuito alle autonomie regionali e locali, dall'altro lo sviluppo dell'Unione europea in uno scenario di internazionalizzazione delle società e dell'economia. In un contesto di questa natura, che senso ha continuare a parlare di " identità nazionale"? Si tratta forse di una nozione obsoleta o peggio ancora, di un mero residuo della retorica nazionalistica romantico-risorgimentale e delle sue nefaste filiazioni novecentesche?
Quando si pensa all'Italia si vede subito una storia millenaria di ibridazione di genti, lingue e culture, ossia la storia di un'identità dinamica e plurale. I fattori di questa identità sono la collocazione dello Stivale dall'arco alpino al Mediterraneo, in un crocevia tra Oriente e Occidente, tra settentrione e meridione dell'Europa, sia nella conformazione del suolo, con la varietà morfologica, climatica e ambientale che caratterizza il territorio. Si può affermare che la geografia del paese ha assecondato gli eventi della storia nel provocare invasioni, conflitti e tensioni, ma anche nel promuovere contatti, relazioni e scambi ( Gambi, 1972). La dialettica tra unità e varietà caratterizza la storia più antica della penisola nella fase dell'espansione di Roma, tanto che Giardina ( 2004) ha parlato di " identità incompiuta" dell'Italia romana. All'epoca della fondazione nel 753 A-C, Roma è una piccola comunità agricolo-pastorale e la sua lingua deve confrontarsi con altre varietà indoeuropee più diffuse nell'Italia centro-meridionale: le lingue del gruppo osco-umbro, parlate dalle antiche stirpi italiche. Sul confine settentrionale i Romani subiscono la concorrenza di vicini evoluti come gli Etruschi, una popolazione di lingua non indoeuropea che sviluppa una precoce cultura dai tratti originali. Su un piano di civiltà ancora più alto si pongono le colonie greche dell'Italia meridionale: le fiorenti città della Magna Grecia svolgono un ruolo fondamentale nel processo di ellenizzazione di Roma e dell'Italia antica, a cominciare dall'alfabeto. Il complesso panorama etnico-linguistico dell'Italia pre-romana comprende numerosi altri popoli parlanti idiomi di varia ascendenza e fisionomia, come Celti al Nord, Messapi al sud, Fenici in Sardegna e in Sicilia. In questo teatro multiforme di popoli e di linguaggi, Roma si afferma con fatica. Nel terzo secolo a-c, Roma acquista il controllo della penisola e delle isole maggiori, ma senza il nord padano. A questo punto, l'espansione romana si trasforma in un crescendo inarrestabile che si apre con la conquista della Spagna da parte di Scipione ( 209-206 a-c) e s'impenna vertiginosamente nell'età di Cesare e Augusto, con incrementi fino al principato di Traiano ( la Dacia fu annessa nel 107 d.c).
Il latino diviene la lingua di un impero che estende la sua influenza su tutto il bacino del Mediterraneo, riducendo entro una sola grande orbita politica e culturale l'Europa, l'Africa settentrionale e il vicino Oriente asiatico. La lingua dei dominatori è adottata gradualmente dai popoli sottomessi come conseguenza dell'egemonia di Roma: penetrazione militare, unico centro amministrativo, forte sviluppo del commercio e imponente rete viaria. Il prestigio sociale della classe dirigente romana e del latino si è diffuso con il sistema scolastico romano. Dopo il 476 d.c, l'unità della penisola, con l'irruzione dei longobardi della seconda metà del secolo VI si delinea per la prima volta il tema storico delle due Italie con un'Italia longobarda, nell'area centro-settentrionale contrapposta ad un'Italia Bizantina comprendente il litorale veneto, la Liguria, Napoli, Puglia, Calabria e le isole. Dal disfacimento dell'impero e dalla formazione dei regni barbarici, con le varie conseguenze sul piano sociale, economico e culturale discende una frattura nella continuità e relativa unità della tradizione latina. All'indebolimento della norma linguistica della classe dirigente romana si accompagna l'emersione incontrollata dei fattori di disomogeneità provenienti dalle varietà locali, popolari, informali mettendo in risalto l'instabilità della situazione linguistica. Il latino mantiene lo statuto di lingua ufficiale. Anche i longobardi percepiti come i più barbari tra i barbari giungeranno ad una generale conversione religiosa e linguistica. La discesa dei Franchi, al seguito di Carlo Magno segna una svolta significativa con la rinascita carolingia incentrata sull'incoronazione di Carlo Magno da parte del papa Leone 13 e con la conseguente nascita del Sacro romano impero. Nel secolo 9, la Sicilia sarà conquistata dagli arabi dando avvio ad un dominio stabile e una civiltà fiorente che favorisce l'islamizzazione dell'isola. Palermo diventa una delle città più importanti del mondo musulmano con intensi scambi con l'Africa e la Spagna. Le tensioni tra il latino e le varietà inferiori evolvono verso una forma di diglossia, ossia una comunità attribuisce a due varietà linguistiche funzioni comunicative e ruoli sociali differenti: il latino è la lingua della scrittura e dell'uso elevato, mentre il volgare conquista gli ambiti familiari e quotidiani. L'affermazione dell'autonomia del volgare riflette il bisogno di introdurre un nuovo strumento linguistico. Ad esempio, il cristianesimo modificò la gerarchia anteponendo alla lingua dei classici la lingua volgare più vicina al parlato. Famosa la massima rivoluzionaria di Sant'Agostino con melius est reprehendant nos grammatici, quam non intelligat populus.
L'unificazione normanno-sveva del Mezzogiorno e l'esperienza molto diversa dei comuni del Settentrione improntano in modo contraddittorio il periodo che va dal XI al XIII. La conquista normanna raccoglie i territori a sud di Roma in un ampio organismo geopolitico che elimina in un solo colpo le dominazioni longobarde, bizantine e arabe. Tale ordinamento territoriale sarà conosciuto come il Regno fino al 1860 nel sud dell'Italia. Nel settentrione, l'inquadramento feudale dei domini franchi perde ogni coerenza e stabilità ad opera delle oligarchie cittadine. La convergenza tra forze locali sospinte da interessi affini promuove, con il contributo dei nascenti ceti dinamici di estrazione borghese, la grande stagione della civiltà comunale. Si precisa così nei suoi contorni definitivi la grande disorganizzazione strutturale tra le due Italie che per la rilevanza delle sue implicazioni tra cui un diverso modo di concepire il rapporto del cittadino con il potere, di tipo più " comunale" e diretto nel Nord, più statuale e burocratico al sud avrebbe segnato in modo permanente lo sviluppo storico del paese ( Petraccone, 2005). La crescita demografica ed economica con lo sviluppo dei centri urbani, con l'intensificazione dei commerci, con il fervore della vita religiosa e civile. Questi progressi interessano le regioni centro-settentrionali e in primis la Toscana. I banchieri fiorentini coprivano i mercanti finanziari italiani e stranieri con una fitta rete di agenzie. Il fiorino godeva di un grosso prestigio internazionale. Nell'età di Dante, Firenze non solo era la città più ricca del paese ma era anche la più istruita città d'Europa. I nuovi adepti della scrittura, i commercianti e artigiani mostrano poca familiarità con il latino e sembrano più ad agio con il volgare. In quel periodo, il volgare diventa d'uso nella comunicazione quotidiana e in varie tipologie testuali come nella scrittura pratica ( amministrativa, commerciale, epistolare). Nella prima metà del Duecento le condizioni più favorevoli al sorgere di una scrittura sovranazionale si manifestano nel regno di Federico II, su impulso dell'imperatore stesso e con la partecipazione dei funzionari della colta e cosmopolita magna curia sveva, la quale fu per molti versi una corte itinerante. In quel periodo nasce la scuola dei poeti siciliani. La lingua di questi poeti è una variante illustre del dialetto siciliano, ma i loro testi vengono molto toscanizzati dai copisti continentali. In questo modo prende avvio la tradizione poetica italiana: una tradizione che dai Siciliani a Dante e Petrarca, ha costituito un'esperienza fondamentale nella formazione della cultura italiana ed europea. In una situazione marcata da notevole discontinuità idiomatiche, il successo del volgare toscano con il suo primato economico e letterario, era destinato a scontrarsi con la persistente vitalità del latino e con l'orgoglioso autonomismo dei vari centri urbani , senza contare sull'immobilismo nel mezzogiorno di vari settori organizzati su basi feudali.
Ad esempio il libro Il Milione di Marco Polo fu scritto prima in francese e poi tradotto in toscano.
Patria del grande viaggiatore era Venezia, città cosmopolita, con intensi scambi con il mondo bizantino e islamico, potenza mediterranea con un suo impero coloniale. Le necessità della comunicazione interlinguistica determinarono la formazione di un veneziano coloniale, una sorta di pidgin dove il veneziano è continuamente imperniato da tratti regionali italiani con molti meridionalismi, elementi slavi, arabi e francesi, bizantini.
Nel periodo che va dagli inizi del Trecento alla metà del Quattrocento si svolge il riassestamento della società italiana post-comunale, con l'aggregazione dei vari centri in distretti organizzativi intorno alle città più importanti o ai principi più importanti. La pace di Lodi ( 1454) sancisce il consolidamento di una pluralità di " stati regionali" facenti capo a Milano, Venezia, Firenze, Roma e Napoli, che formeranno l'ossatura dell'accidentata geografia politica italiana fino all'età napoleonica. La mancanza di uno stato forte ostacolerà l'unificazione e susciterà gli appetiti espansionistici delle grande potenze europee. Il dominio di potenze straniere nella penisola italiana non sanerà dal cinquecento all'ottocento il cronico problema del frazionamento. In modo paradossale si potrebbe dire che l'Italia non ha avuto la fortuna di essere occupata per intera da un solo invasore. Per quel che riguarda la diffusione della lingua unitaria, nel periodo del Quattrocento abbiamo la presenza nel parlato civile delle corti e nelle cancellerie di lingue sovralocale con delle Koinai cortigiane e cancelleresche in cui le punte idiomatiche sono mitigate dal latino o dal toscano. Dal cinquecento, il toscano letterario diventa con l'ausilio dell'editoria, la lingua comune della scrittura, con un'ottima codificazione e capacità di farsi spazio tra le lingue di cultura europee. L'industria del libro, con capitale Venezia, cercherà un collaudato canone disponibile. La letteratura toscana del 300 offriva un modello insuperabile: Petrarca per la lirica e Boccacio per la prosa. Dante sarà inteso come il grande sperimentatore mentre un ruolo importante avrà il padano Ariosto, il quale capì l'importanza della stampa e curò le tre edizioni dell'Orlando Furioso.
In quel periodo per riconoscere le linee dell'identità linguistica e culturale italiana non serve marcare confini, ma occorre invece prendere coscienza di un ricco tessuto di relazioni intercorse tra le diverse regioni d'Italia, e con altri paesi come testimoniato dai tanti apporti lessicali. Tracce consistenti e suggestive di questo complesso DNA storico rimangono impresse nelle stesse identità personali: Laura e Paolo ad esempio sono nomi latini, Alessandro e Caterina sono di origine greca, Anna e Giovanni sono di base ebraica giunto dalle prime comunità cristiane, Alberto e Adelaide sono di origine germanica, Orlando e Ruggero sono germanici, dalla Francia vengono i Luigi e Luisa, spagnoli sono Alvaro e Carmen, cognomi di origine spagnola si ritrovano con finale in -es e ez; mentre slavi sono i cognomi in -ic, ich, -cic mentre in Sicilia molti cognomi sono di origine greca come Craxi e Laganà e arabi come Badalà e Morabito; la Lombardia è la terra dei Longobardi con Milano come nome celtico; Roma è un nome con una radice etrusca; Napoli è la Neopolis ossia la città nuova dei Greci, Caltanissetta ha ascendenza arabe. Nell'esperienza linguistica si riflette un aspetto centrale della civiltà italiana, vale a dire l'intreccio tra la costitutiva pluralità di tradizioni culturali e la ricerca di un'identità comune.
Senza il legame della lingua. Babele comunicativa e disgregazione civile
" Parliamo l'italiano e quindi siamo italiani". Per quanto oggi possa sembrarci strano, una frase del genere non sarebbe venuta in mente ai nostri trisavoli, per il semplice fatto che l'italiano era poco parlato. In un contesto di estrema varietà e vitalità dei dialetti, la progressiva affermazione nell'uso comune del modello letterario toscano è stata frenata dall'endemica piaga dell'analfabetismo, che ha impedito a molti di imparare l'italiano. Soltanto con l'unificazione politica del paese, l'italiano è diventato gradualmente patrimonio effettivo della maggioranza degli italiani, mentre nel passato è stata la lingua di una ristretta fascia di letterati e di persone colte.
Da punti di vista diversi, Manzoni e Leopardi hanno avvertito con chiarezza in Italia una lingua per la conversazione, con la quale dibattere francamente di idee e di problemi del presente e hanno sottolineato le gravi implicazioni di questo limite per il dialogo tra gli individui. Per Manzoni, l'italiano era una lingua morta mentre per Leopardi l'assenza di una civiltà della conversazione era collegato con un'attitudine tipica degli italiani all'indifferenza, cinismo e disprezzo per ogni norma sociale. Secondo Leopardi, la babele comunicativa genera disgregazione civile e l'assenza di conversazione produce " odio e disunione, accresce l'avversione e le passioni degli uomini contro gli altri uomini. Per Leopardi, la lingua è un forte vettore di unione nazionale e di armonia sociale; Parlando con gli altri nasce l'idea del bene comune di un popolo, mentre condizioni opposte frenano questo processo di coesione. L'impossibilità di conversare rendono più difficile il superamento dei particolarismi e ostacolano la formazione di un codice di abitudine condivise su cui poggiare una convivenza pubblica e una fiducia collettiva. Per Dionisotti ( 1967) l'italiano come lingua bella e impossibile ha permesso un prestigio per imporsi ma ha scoraggiato la ricerca di solidarietà comunicativa più ampiamente accessibili. In seguito abbiamo avuto ricorso ad una forte presenza della retorica con valore ornamentale e manipolatoria mettendo sempre l'accento sulla forma sul contenuto, dal " sembrare" sull'"essere" attivando un virus ancora molto presente nel paese.
Questa disgregazione linguistica era anche promossa dalla politica come nel caso della Milano illuminista dove i membri dell'amministrazione dovevano fare parte di un gruppo ristretto di persone e questo comprimeva gli spazi di mediazione linguistica tra persone provenienti da gruppi sociali differenti.
Il particolarismo dialettale e il formalismo retorico sono stati in ultima analisi i corrispettivi linguistici del localismo e del conservatorismo degli Stati preunitari. Il potere, composto da pochi e circoscritti gruppi di riferimento, è andato a rivolgersi in modo apparentemente contraddittorio verso i due poli estremi, vale a dire il dialetto e l'italiano aulico. Dalla combinazione di questi due sistemi antitetici e concorrenti nasceva una difesa delle posizioni acquisite in modo da assicurare una copertura da ingerenze esterne e da ascese interne. Sul piano orizzontale era la fresca e spontanea parlata locale a rispondere alle esigenze della comunicazione quotidiana e a marcare l'appartenenza dell'individuo al territorio in modo da differenziarsi dal forestiero; sul piano verticale, il supersistema si avvaleva di un sistema sofisticato in termini retorici-grammaticale, con una lingua di eccellenza destinata agli impieghi della sfera formale e pubblica, la quale veniva in questo modo preclusa alle classi inferiori. Tuttavia all'interno del paese ci furono dei casi di apertura verso gruppi sociali più deboli per via delle varie forme di democraticità presente nel corpo del paese, il quale in alcuni casi non ascoltava la testa del paese. Non va dimenticata la presenza della Chiesa cattolica, con il suo doppio volto aristocratico e popolare, in cui ritroviamo una felice sintesi con la predicazione.
L'italiano parlato prima dell'unità. Ipotesi critiche a confronto.
E' quasi un luogo comune dire che la storia della comunicazione verbale in Italia sia stata da una duplicità radicale tra il piano scritto e quello parlato. E' possibile che durante la fase preunitaria ci fosse stato in consonanza con Bianconi ( 2003) una presenza di un italiano regionale o di un dialetto incivilito. Nelle varie situazioni con persone non locali doveva avvenire una moltitudine di miscele alquanto instabili di italiano e dialetto. Tuttavia il dato dell'analfabetismo attestato tra il 75 e 80% di persone incapaci di leggere e scrivere resta elemento fondamentale per capire la situazione in Italia dal punto di vista linguistico e culturale in termini di comparazione con altri paesi europei con un numero di analfabeti molto più basso.
Serianni argomenta che prima dell'unità nazionale esisteva un tipo di italiano " stentato ma adeguato per quella che è la prima funzione di una lingua: la comunicazione".
Pilastri e mattoni dell'identità linguistica
Il catalogo degli autori che hanno rappresentato un itinerario utile per gli Italiani per conseguire una coscienza nazionale comprendono dopo Manzoni, Collodi con Pinocchio, l'Artusi con Scienza in cucina, i librettisti, Salgari e fino a Mike Buongiorno. Non a caso Cuore e Pinocchio sono le opere letterarie che gli italiani considerano più significative per l'identità nazionale, subito dopo la Divina Commedia e i Promessi Sposi. Inoltre bisogna aggiungere il melodramma verdiano con i nomi quali Alfredo, Aida, Elvira, Ines, Violetta. Tale inventario può proseguire dall'Inno di Mameli alle canzoni di Vasco Rossi, Gian Burrasca, Don Camillo, la tribuna politica a Carosello, dal corriere dei piccoli, al sapere vivere di Donna Letizia, dal dizionario Zingarelli ai manuali del Sapegno, dal cinema di Alberto Sordi di tipo fenomenologico a quello ideologico di Nanni Moretti, dalla scrittura estrosa di Brera ai sermoni politici di Eugenio Scalfari. Da questo tessuto connettivo di nobile artigianato è maturato nel paese un'identità di immagini e memorie più salda della stessa identità politica.
Nel secondo dopoguerra i progressi dell'economia, l'evoluzione del costume, la presenza della televisione consentono un uso più ampio della lingua italiana sul piano del parlato così come dello scritto. Si affermeranno degli stili di vita più aperti e dinamici che favoriscono il superamento di antichi vincoli tra uomini e donne, giovani e anziani. La liberalizzazione linguistica induce a semplificare la sintassi, con un uso più diffuso del tu ( specie tra giovani), a sdoganare le " parolacce", nell'accogliere nell'italiano scritto alcuni elementi dell'italiano parlato ( lui usato come soggetto invece di Egli, le cosiddette frasi scisse " è questo che volevo dirti invece di " volevo dirti questo" . La rivincita del parlato sullo scritto è favorita dal cellulare, dalle chat e dai social in generale. Il fattore tempo incide sull'elaborazione testuale poiché una comunicazione via chat è qualitativamente inferiore ad una corrispondenza epistolare, dove la lentezza è un lusso solo per la scrittura accurata. Se si considera la circolazione di anglicismi, con le contaminazioni delle lingue tecnico-scientifiche o settoriali, si capisce meglio perché si parli sempre di più di un " neoitaliano".
Di fronte a tutti questi fenomeni in movimento, la comunanza della lingua rappresenta sempre un approdo ma senza annullare le notevoli variabili presenti come i dialetti. Si pensi al suo uso nell'ambito del rap o nell'ambito delle tifoserie di calcio. Il dialetto si configura come una "controlingua", ossia una cultura alternativa da recuperare e valorizzare, in polemica con la cultura ufficiale sentita come estranea o imposta ( Gargiulo, 2005).
Tutti questi cambiamenti non mutano i tre grandi pilastri dell'identità linguistica italiana:
1) lingua di cultura con Dante che ha offerto un modello valido per tutti gli italiani;
2) profonde radici popolari e pluridialettali capaci di inventare una molteplicità di registri utili per affrontare la comunicazione;
3) forte individualità dell'italiano data la sua capacità di metabolizzare facilmente i neologismi e forestierismi. Inoltre sul piano tipologico, le parole italiane vedono la presenza di una vocale all'interno di una sillaba e quasi tutte le parole italiane terminano in vocale. La relativa libertà di collocazione delle parole nella frase ha contribuito alla fama musicale di eleganza e plasticità dell'italiano.
Questo patrimonio nelle mani dei parlanti è da conservare e valorizzare nonostante il bombardamento multimediale di messaggini privi di significato, alla spazzatura dei discorsi e comportamenti provenienti dai reality show. Bisogna sperare che il signor Rossi e la casalinga di Voghera restino attaccati alla lingua nazionale. La raccomandazione più importante mi pare quella di perseguire la modernità senza diventare soggetti totalmente passivi delle multinazionali dell'economia e della comunicazione.
Blog dedicato alla didattica della lingua e cultura italiana in senso antropologico, pragmatico e anche tradizionale.
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