Parlare di satira, ironia e
diffamazione in un solo articolo non è cosa facile. Cerchero? di farmi
aiutare dagli esempi più noti che mi verranno in mente. L'autore che ha
rappresentato al meglio questo spirito è stato Dario Fo con il suo
tentativo di sfuggire alla censura e ai rischi di satira intesa già come
atto diffamatorio con il suo grammelot. Questo strumento, nato sin dai
tempi della Commedia dell'arte ha consentito di praticare il diritto al
dissenso in modo da non essere perseguitato dal potere.
Mi piace ricordare la prima e unica regola della satira: nella satira
non ci sono regole". Se rifacciamo un viaggio a ritroso in senso
etimologico vediamo come nel mondo antico, la parola satira viene dal latino satura, nell’espressione lanx satura, che
indicava il piatto di primizie offerte agli dei. Il significato
originario era probabilmente quello di «mescolanza», «varietà», e
indicava un tipo di composizione che univa stralci di argomenti diversi.
Il genere letterario della satira nasce con la letteratura latina,
anche se naturalmente in quella greca è possibile ritrovare diverse
opere scritte con intenti satirici ( come avviene nel caso di
Aristofane). Il genere inizia, di fatto, con Gaio Lucilio nel 2° secolo
a.C., che scrisse trenta libri di satire e che – pur utilizzando diversi
metri – ha codificato l’esametro come verso per eccellenza della
satira. Lucilio, Orazio, Aulo Persio Flacco e Giovenale, Marco Valerio
Marziale e Petronio sono stati i modelli per gli scrittori satirici di
tutti i tempi. Nel periodo che definiamo invece come tempi moderni, la
satira moderna ha avuto un momento di grande sviluppo, dopo Ariosto, nel
Seicento: in Italia è stata dominata soprattutto dal classicismo
conservatore (per esempio Gabriello Chiabrera). Ma i paesi dove si è
forse maggiormente sviluppata sono stati la Spagna, per esempio con
Francisco de Quevedo (Sogni e discorsi, 1627), e la Francia, per esempio con Nicolas Boileau (Satire, 1666),
o con la rielaborazione delle favole di Esopo e La Fontaine. Anche il
Settecento è un secolo al quale, come atteggiamento intellettuale, si
addice particolarmente la satira, anche se come genere comincia a
perdere i suoi connotati precisi. Possono essere considerati buoni
esempi di opere dall’intento satirico, quindi, i componimenti più
disparati, dal Giorno di Giuseppe Parini al Candido di Voltaire, a Il nipote di Rameau
di Denis Diderot, agli scritti dell’inglese Alexander Pope o
Swift, alle commedie del francese Pierre-Augustin Beaumarchais, alle
diciassette satire di Alfieri. Nell'Ottocento e Novecento, diventa più
difficile parlare di un vero e proprio genere satirico dall’Ottocento,
anche se uno spirito tra il satirico e il grottesco pervade, per
esempio, molte opere di Gogol, le poesie di Carlo Porta o di Gioacchino
Belli, le opere di Laurence Sterne, o nel Novecento le commedie
‘sgradevoli’ di Bernard Shaw e per certi versi del russo Vladimir V.
Majakovskij. Molti sostengono che nel Novecento il genere letterario satirico declini per il prevalere dei periodici e dei disegni di satira politica e sociale (si pensi, per esempio, all’opera di George Grosz). Un grande esempio di romanzo satirico può essere considerato La fattoria degli animali di Orwell, nel quale lo scrittore descrive il modo in cui una rivoluzione – ambientata in una fattoria particolarmente mal tenuta, dove gli animali decidono di ribellarsi e di vivere senza aiuto umano – degenera fino a divenire la parodia di sé stessa.
L'autore italiano in cui il tema dell'ironia come forma di umorismo sul senso grottesco della vita è sicuramente Pirandello.
Nei suoi lavori emerge una visione originale del suo senso di umorismo inteso come «sentimento del contrario», l'elaborazione razionale e successiva del comico, una riflessione che porta ad un sentimento di identificazione e compassione nei confronti della persona di cui ci si prende gioco.
Tale sentimento ha le sue radici nella natura del "contrario" analizzato dall'umorista: anche qui si tratta del conflitto tra la forza profonda della vita e le cristallizzazioni della forma; tuttavia qui la vita appare irrimediabilmente soffocata dalla forma, incarnata dall'ideologia, dalle convenzioni, dalle leggi civili e dal meccanismo stesso della vita associata. Anche Bergson aveva notato che «proprio come la vita dello spirito può essere ostacolata nel suo realizzarsi dalle esigenze della macchina corporea, così la forma della vita sociale può soffocarne il senso», ma per Pirandello questo soffocamento è intrinseco e strutturale nella vita associata. D'altronde lo stesso "slancio" che permea la vita ha perso le connotazioni positive dello spiritualismo francese, per assomigliare più ad un caos cieco ed oscuro, più vicino alle concezioni irrazionaliste di fine Ottocento ed alla caratterizzazione dell'inconscio di matrice freudiana.
La "meccanizzazione" dunque non è più l'anomalia sociale da correggere, ma l'autoinganno con cui l'uomo cerca di dare un senso all'informità della vita; in particolare, nel rapporto con gli altri l'autoinganno prende la forma della 'maschera', dell'(auto) imposizione del soggetto di un'identità fissa e predefinita dai valori morali e culturali, un'identità necessariamente percepita come estranea ed inautentica. Ecco allora che sottolineare questi autoinganni, descrivere l'erompere saltuario della vita dalla forma significa partecipare del dramma dell'uomo, combattuto tra bisogno di certezze e il bisogno di aderire alla realtà autentica della vita: il "sentimento del contrario" diventa per Pirandello come un modo per ridere e piangere nello stesso tempo.
Nel fu Mattia Pascal, Pirandello compie una citazione in cui " dimentichiamo spesso e volentieri di essere atomi infinitesimali per rispettarci e ammirarci a vicenda, e siamo capaci di azzuffarci per un pezzettino di terra o di dolerci di certe cose, che, ove fossimo veramente compenetrati di quello che siamo, dovrebbero parerci miserie incalcolabili. (cap. II; 1986, p. 7)".
Un'altra sua citazione di grosso rilievo dice: "Posso dire che da allora ho fatto il gusto a ridere di tutte le mie sciagure e d'ogni mio tormento. Mi vidi, in quell'istante, attore d'una tragedia che più buffa non si sarebbe potuta immaginare: mia madre, scappata via, così, con quella matta; mia moglie, di là, che... lasciamola stare!; Marianna Pescatore lì per terra; e io, io che non avevo più pane, quel che si dice pane, per il giorno appresso, io con la barba tutta impastocchiata, il viso sgraffiato, grondante non sapevo ancora se di sangue o di lagrime, per il troppo ridere. (cap. V; 1973, p. 360)".
Passando al tema della diffamazione si può proseguire con un'opera di Pirandello intitolata La patente. In questo lavoro dell'autore siciliano i protagonisti de La patente sono il giudice D’Andrea e un modesto impiegato del monte dei pegni, tale Rosario Chiarchiaro, licenziato perché sospettato di essere uno iettatore. L’uomo ha poi sporto denuncia presso la magistratura contro due giovani, che al suo passaggio avrebbero fatto il classico gesto di superstizione popolare delle “corna” per allontanare il malaugurio. Il giudice D’Andrea si trova allora di fronte ad un caso paradossale, dato che, in quanto esponente della legge e della razionalità, non può certo credere all’esistenza della sfortuna né può tutelare in alcun modo gli interessi di Chiarchiaro che, a causa delle malelingue del paese, oltre ad aver perso il posto di lavoro, non riesce a far sposare le figlie ed è costretto a tenere segregata in casa l’intera famiglia:
Perché, in verità, era un caso insolito e speciosissimo quello d'un jettatore che si querelava per diffamazione contro i primi due che gli erano caduti sotto gli occhi nell'atto di far gli scongiuri di rito al suo passaggio.
La situazione, fortemente intrisa dell’umorismo pirandelliano e dell’amaro pessimismo esistenziale dello scrittore, si complica ulteriormente quando Chiarchiaro è convocato in tribunale per dare la sua versione dei fatti: anziché difendersi o ritirare la denuncia, il protagonista pirandelliano, vestitosi per giunta da autentico menagramo, reclama con forza e convinzione di andare a processo, e anzi di poter ottenere un riconoscimento - una “patente”, appunto - del suo status di portasfortuna. L’analisi di Chiarchiaro è tanto acuta quanto spietata; se il mondo gli ha imposto, nella sua rozza ignoranza, una “maschera”, tanto vale accettare di propria volontà questa “parte” teatrale, fino a ricavarne il giusto tornaconto economico:
Tutti, tutti ci credono! E ci son tante case da giuoco in questo paese! Basterà ch’io mi presenti; non ci sarà bisogno di dir nulla. Mi pagheranno per farmi andar via! Mi metterò a ronzare intorno a tutte le fabbriche; mi pianterò innanzi a tutte le botteghe; e tutti, tutti mi pagheranno la tassa, lei dice dell’ignoranza? io dico della salute! Perché, signor giudice, ho accumulato tanta bile e tanto odio, io, contro tutta questa schifosa umanità, che veramente credo d’avere ormai in questi occhi la potenza di far crollare dalle fondamenta una intera città!
Questa interpretazione della diffamazione in chiave letteraria ci consente di uscire da una visione restrittiva di tipo soltanto giurdica della diffamazione inteso ome un delitto contro l'onore ed è definita come l'offesa all'altrui reputazione, comunicata a più persone con la parola, lo scritto ed ogni altro mezzo di comunicazione. A differenza del delitto di ingiuria, il delitto di diffamazione può essere consumato solo in assenza della persona offesa.
Ecco in assenza della persona offesa restiamo ancorati alle parole di Pirandello:
Diffamazione? Ma che diffamazione, povero disgraziato, se già da qualche anno era diffusissima in tutto il paese la sua fama di jettatore? se innumerevoli testimonii potevano venire in tribunale a giurare che egli in tante e tante occasioni aveva dato segno di conoscere quella sua fama, ribellandosi con proteste violente? Come condannare, in coscienza, quei due giovanotti quali diffamatori per aver fatto al passaggio di lui il gesto che da tempo solevano fare apertamente tutti gli altri....
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