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lunedì 14 ottobre 2019

Monicelli, Risi, Scola: variazione linguistica e commedia

La commedia all’italiana rappresenta, interpreta e aiuta a comprendere la storia e il
costume dell’Italia nella seconda metà del Novecento. Questo è vero anche per il rapporto
tra lingua e società, che conosce sviluppi decisivi proprio negli anni Sessanta.
Possiamo dunque rivedere, rileggere (tramite le sceneggiature) e ripensare sotto il profilo
linguistico alcuni film memorabili per il pubblico e per la critica:
La grande guerra (1959, mm. 130), regia di Mario Monicelli, soggetto e sceneggiatura di
Age(nore Incrocci), (Furio) Scarpelli, Luciano Vincenzoni, Mario Monicelli; dialoghi di
Age e Scarpelli; attori principali Alberto Sordi, Vittorio Gassman, Silvana Mangano;
Il sorpasso (1962, mm. 102), regia di Dino Risi, soggetto e sceneggiatura di Dino Risi, Ettore
Scola, Ruggero Maccari (vedi oltre); dialoghi di Scola e Maccari; attori principali Vittorio
Gassman, Catherine Spaak, Jean Louis Trintignant;
L’armata Brancaleone (1966, mm. 120), regia di Mario Monicelli, soggetto e sceneggiatura
di Age, Scarpelli, Monicelli; attori principali Vittorio Gassman, Gian Maria Volonté, Enrico
Maria Salerno, Catherine Spaak, Folco Lulli;
In nome del popolo italiano (1971, mm. 100), regia di Dino Risi, soggetto e sceneggiatura di
Age e Scarpelli; attori principali Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman;
C’eravamo tanto amati (1974, mm. 120), regia di Ettore Scola, soggetto e sceneggiatura di
Age, Scarpelli, Scola; attori principali Nino Manfredi, Vittorio Gassman, Stefania Sandrelli,
Stefano Satta Flores, Giovanna Ralli, Aldo Fabrizi.
Questi cinque film si dispongono lungo tutto l’arco di questo genere, tra I soliti
ignoti (1958) e Amici miei (1975)[1]. I registi sono Monicelli, Risi, Scola. Monicelli e Scola, nati come sceneggiatori, e lo stesso Risi firmano anche soggetti o sceneggiature,
accanto a Maccari e specialmente ad Age e Scarpelli. Quanto agli attori, ci sono i mostri
sacri del cinema italiano e anzitutto Gassman, con a fianco, via via, Sordi[2] e Mangano,
Trintignant e Spaak, Volonté e Salerno, Tognazzi, Manfredi e Sandrelli.

Lingua e società: la lunga durata

L’armata Brancaleone è ambientato in uno strano Medioevo in cui s’intrecciano incursioni
dei barbari, domini bizantini in Italia meridionale (tutti passati entro il 1071
ai Normanni), concilio di Trosley (909), prima crociata (1096-1099) e persino duecentesche
lotte «contra li Svevi»[3]. Se il Brancaleone può apparire fantastico e stralunato,
grazie anche ai geniali costumi di Piero Gherardi, La grande guerra, ambientato mille
anni dopo, risulta invece assai realistico, per la cura rivolta da Monicelli alla ricerca di
materiale iconografico originale, alla scelta dei luoghi del primo conflitto mondiale e
alla stessa ricreazione delle condizioni materiali di esso sul set. Proviamo però a tracciare
un’analisi sociolinguistica sia di questo film sia di quello “fantastico-medievale”[4].
Abbiamo anzitutto la truppa, quella italiana del 1915-1918 e quella dell’Armata
di Brancaleone, composta da elementi delle classi popolari, per lo più analfabeti e
caratterizzati da parlate di tipo dialettale o regionale. Più precisamente, nel parlato
filmico della Grande Guerra troviamo i dialetti veneti e in particolare il padovano
di Costantina, di Bordin e di sua moglie (ma vedi anche Mandich, interpretato dal
triestino Tiberio Mitri), il dialetto e l’italiano regionale lombardo di Giovanni-Gassman,
il romanesco di Oreste-Sordi e l’analoga parlata della sentinella che dialoga
con lui («è sempre mejo ’n amico morto che ’n nemico vivo», h. 1.51), l’italiano
regionale con tratti pugliesi prestati da Nicola Arigliano al soldato Domenico Giardino
(cui il trattamento assegnava invece un «pesante accento partenopeo»), l’italiano
regionale siciliano con qualche inserto dialettale di Rosario Nicotra (vedi già
«che femmena meravigghiosa» in Age, Scarpelli e Monicelli 1979: 99), ecc. Analogamente,
l’Armata comprende Mangoldo, giunto coi predoni dal Nord e caratterizzato
sia dall’accento tedeschizzante sia da tratti lombardo-veneti; Taccone e Pecoro,
ai quali è assegnata una parlata alto-laziale, propria davvero dell’interprete di Taccone
nato a Ronciglione (vt); il fabbro Zito, aggiuntosi in seguito e caratterizzato da
un dialetto di tipo meridionale, con dittongo metafonetico (muorto, fierro), chi- da
pl- (chiagne ‘piange’, chiù ‘più’), jurnata ‘giornata’ e fuì ‘fuggì’, primma e famme, ecc.
Infine, ad «Aurocastro nelle Puglie», i locali «buzzurri», nel copione, accolgono i
nostri al grido di «I surdata, i surdata! [...] Songo pochi! Ma so’ forzosi! [...] Trasite arinto!», ma poco dopo giunge il drammatico allarme «una vila nira!» ‘una vela
nera!’ (h. 1.39), con vocalismo “siciliano” proprio anche dell’estremo Sud.
All’opposto polo sociale e linguistico stanno esponenti delle classi superiori e specificamente,
nella Grande Guerra, gli ufficiali di vario grado, cui è associato l’uso dell’italiano
nelle sue varietà stilistiche o situazionali. Il maggiore Arnoldo Ferri, reclutatore di
volontari per missioni speciali, si caratterizza per uno stile epico-retorico, l’aspirante o
sottotenente Loquenzi unisce all’arroganza e inesperienza un italiano di tipo militaresco,
il capitano Castelli detto Bollotondo rappresenta l’italiano burocratico, mentre sia
il generale che il tenente Gallina intrecciano italiano medio e italiano medio-basso, in
funzione, nel secondo caso, di un vero dialogo con la truppa e nel primo, invece, di un
paternalismo ipocrita. Nell’Armata Brancaleone alle classi alte (nobili, cavalieri, chierici,
dame) è assegnato un italiano antico o anticheggiante[5], magari alimentato dagli
studi liceali degli sceneggiatori e arricchito da elementi regionali, per rappresentare la
diversificazione della stessa lingua letteraria in epoca medievale. Brancaleone si caratterizza,
specie all’inizio, per un toscano trecentesco con elementi anche non fiorentini
(sete ‘siete’, puppe ‘poppe’ ecc.) e con chiari riferimenti a Dante, Machiavelli, ecc.[6]; il
monaco Zenone è portatore di una lingua con tratti mediani (lo jorno, m. 45) e riecheggiamenti
di Jacopone da Todi («sarai mondo se monderai lo mondo» ripete «o
mondo enmondo – che d’ogni ben m’hai mondo» di Jacopone); il nobile bizantino
Teofilatto presenta erre moscia (indice stereotipo di alto rango sociale), arcaismi volutamente
sforzati (ad es. «Benanco tu sei grandemente pomposo, quali vi veggo siete
assai malmessi»: Franceschini 2016: 127-128) e forme-bandiera allusive a testi antichi e
dialetti di tipo meridionale, come caballo invece di cavallo; Guccione, sire di Camporocchiano,
nella sceneggiatura mostra tratti dell’estremo Sud (pigghiateli) e riecheggia
la prima poesia siciliana (in «boccuccia di rosa aulentissima», rinviante al Contrasto di
Cielo d’Alcamo: Franceschini 2016: 223-224, 231).
Tra i due poli c’è una fascia intermedia, costituita nella Grande Guerra da sottufficiali
come il sergente Battiferri, che usa l’italiano militaresco ma passa al dialetto per
“farsi intendere” dai soldati[7], e da soldati semplici capaci più o meno di maneggiare i
codici linguistici delle classi superiori. Giovanni-Gassman, pur con gaffes e inciampi,
lascia il suo italiano regionale o il dialetto lombardo per esortare alla ribellione, ispirandosi
al «Bakünìn» («Quello che vi frega a voialtri popoli non emancipati […] e' il fatalismo rinunciatariolismo rinunciatario. Guerra al privilegio, ecco la guerra giusta»: m. 8). Oreste-Sordi si
esprime in romanesco, ma sa leggere e si produce in slanci retorico-militaristi («io uso
obbedir tacendo e tacendo morir!»: m. 3) o servilmente encomiastici, come nel memorabile
«ottimo e abbondante!» detto del rancio schifoso. La stessa Costantina, prostituta
e dialettofona padovana (nel parlato filmico), è anche «furiera» nel senso che,
per il suo lavoro, tratta coi comandi e ne acquisisce notizie sui movimenti della truppa.
Allo stesso modo nell’Armata Brancaleone l’ebreo e robivecchi Zeffirino Abacuc, il cui
repertorio comprende l’italiano antico, il giudeo-romanesco ed elementi ebraici, svolge
una funzione di mediazione in quanto istitutore dell’Armata (tramite la lettura del
rotolo: vedi oltre), suo «mastro di finanze» e diplomatico.
Può apparire strano che tra il concilio di Trosley del 909, citato nella sceneggiatura
del Brancaleone, e il trattato di Versailles del 1919, che pose fine alla Grande Guerra,
la situazione sociolinguistica italiana appaia qui per molti versi invariata. In realtà, gli
autori colgono, a loro modo, un aspetto fondamentale della storia linguistica italiana:
la compresenza, dal Medioevo al secolo XX, di strati subalterni confinati nell’oralità e
nelle singole parlate locali, di élites colte che padroneggiano l’italiano di base toscana,
cristallizzatosi nello scritto, e di uno strato intermedio di “umili” semicolti, capaci di
padroneggiare, entro certi limiti, i codici linguistici più elevati.



 Il sorpasso è l’epopea dell’Italia del boom, di una nuova Italia che si lasciava alle spalle
caratteri originali invariati nei secoli[12]. Come si legge nella sceneggiatura, «il potere
d’acquisto in Italia è aumentato del settecento per cento ed ogni “miracolato” vuole
in casa il vino ghiacciato, il secondo canale e la lavabiancheria» (Ghirlanda 2012: 73-
74). I “miracolati” dall’impetuoso sviluppo socio-economico hanno accesso non solo
ai beni di consumo ma anche alla cultura e alla lingua, s’intende entro certi limiti, come
attestano gli inciampi linguistico-culturali di Bruno-Gassman, analoghi a quelli del
Giovanni nella Grande guerra[13]. In ogni caso, secondo le stime di De Mauro (2001:
9), abbiamo negli anni Sessanta un importantissimo sorpasso per quanto riguarda le
percentuali d’uso di italiano, italiano-dialetto e dialetto:
1861 1955 1988 1995
Italiano 1,5 10,0 38,0 44,4
Italiano/Dialetto 1,0 24,0 48,0 48,7
Dialetto 97,5 66,0 14,0 6,9
Totale 100,0 100,0 100,0 100,0
Queste stime, pur messe talora in discussione, non sono certo infondate. Vediamo dunque
se e come si rifletta nel Sorpasso uno sviluppo che, rispetto alla predominante dialettofonia
degli anni Cinquanta, vede nel 1988 solo un 14% di dialettofoni esclusivi, il 38% di
italofoni esclusivi e quasi metà della popolazione che usa e intreccia italiano e dialetto.
Nel film l’opposizione città-campagna, pur persistente, è superata in parte dalla
diffusione dei costumi moderni: nella «festa campagnola» si balla «er twist a la bburina
» (m. 52), nei campi si vede «come si so’ scafate le donzellette», con pantaloni e
reggiseno alla moda (m. 40), e un «villico» autostoppista si rivela familiare sia con le
nuove regole di mercato che con la velocità:
Il sorpasso, scenegg., Ghirlanda 2012: 78-81 Il sorpasso, parlato filmico, mm. 28-29
Bruno: Forza nonno. Monta. […]
Nonne’, sei andato a vendere le uova?
Bruno: Forza, lavoratore de la tèra, ’nnamo,
forza. […]
Che vvai a vènne’ le òva, nonné’?
Contadino: No. Le so’ andate a compra’ a
Santa Marinella. Arrivano da Taranto. E io le
vendo a li viaggiatori che si fermano davanti
alla fattoria. […]
Ma ’sta macchina nun corre?
Contadino: Nò. L’ho ggomprate. […] Le
sigarette pùzzeno. […]
Ma gome, ’sta màghina nun cure?

Tra il dialetto laziale del villico, assai marcato nel parlato filmico, e il buon italiano
di Roberto-Trintignant (doppiato da Paolo Ferrari), Lilli-Catherine Spaak (doppiata
da Melina Martello) e Gianna moglie di Bruno (Luciana Angiolillo, doppiata da Benita
Martini), domina però la mescolanza dell’italiano con accenti regionali e talora
macchie dialettali, propria di molti personaggi e in particolare dei borghesi in vacanza
a Castiglioncello:
Bruno (Vittorio Gassman) romanesco; Alfredo cugino di Roberto ( John Francis Lane,
doppiato da Antonio Guidi) fiorentino (vedi oltre); Lungo e suo padre livornese; Capostazione
di Castiglioncello fiorentino; Clara (Mila Stanic) accento piemontese
con elementi dialettali (’sti truchi vechi com’el cuccu, che lüna: mm. 58-59); presunto Fratello
di Clara romanesco; Commendatore (Luigi Zerbinati, doppiato da Edoardo
Toniolo) accento lombardo con elementi dialettali («io i soldi non li butto mica nel Naviglio,
son miga matt»: h. 1.03); Moglie del commendatore (Franca Polesello, doppiata
da Noemi Gifuni) accento emiliano con tipica pronunzia della esse e degeminazioni (afari,
balare h. 1.02, porcelone h. 1.04); Danilo Borrelli ‘Bibì’ (Claudio Gora) accento settentrionale;
Amico di barca di Bibì accento ligure.

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