La lettera di Einstein a Freud
Caputh (Potsdam), 30 luglio 1932Caro signor Freud,
La proposta, fattami dalla Società delle Nazioni e dal suo Istituto internazionale di cooperazione intellettuale di Parigi, di invitare una persona di mio gradimento a un franco scambio d'opinione su un problema qualsiasi da me scelto, mi offre la gradita occasione di dialogare con Lei circa una domanda che appare, nella presente condizione dei mondo la più urgente fra tutte quelle che si pongono alla civiltà. La domanda è: C'è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra? là orinai risaputo che, coi progredire della scienza moderna, rispondere a questa domanda è divenuto una questione di vita o di morte nella civiltà da noi conosciuta. Eppure, nonostante tutta la buona volontà, nessun tentativo di soluzione è purtroppo approdato a qualcosa.
Penso anche che coloro cui spetta affrontare il problema professionalmente e praticamente divengano di giorno in giorno più consapevoli della loro impotenza in proposito, e abbiano oggi un vivo desiderio di conoscere le opinioni di persone assorbite dalla ricerca scientifica, le quali per ciò stesso siano in grado di osservare, problemi del mondo con sufficiente distacco. Quanto a me, l'obiettivo cui si rivolge abitualmente il mio pensiero non m'aiuta a discernere gli oscuri recessi della volontà e del sentimento umano. Pertanto, riguardo a tale richiesta, dovrò limitarmi a cercare di porre il problema nei giusti termini consentendole così, su un terreno sbarazzato dalle soluzioni più ovvie, di avvalersi della Sua vasta conoscenza della vita istintiva umana per far qualche luce sul problema. Vi sono determinati ostacoli psicologici di cui chi non conosce la scienza psicologica non può esplorare le correlazioni e i confini, pur avendone un vago sentore; sono convinto che Lei potrà suggerire metodi educativi, più o meno estranei all'ambito politico, che elimineranno questi ostacoli.
Essendo immune da sentimenti nazionalistici, vedo personalmente una maniera semplice di affrontare l'aspetto esteriore, cioè organizzativo, del problema: gli Stati creino un autorità legislativa e giudiziaria col mandato di comporre tutti i conflitti che sorgano tra loro. Ogni Stato si assuma l'obbligo di rispettare i decreti di questa autorità, di invocarne la decisione in ogni disputa, di accettare senza riserve il giudizio e di attuare tutti i provvedimenti che essa ritenesse necessari per far applicare le proprie ingiunzioni. Qui s'incontra la prima difficoltà: un tribunale è un'istituzione umana che, quanto meno è in grado di far rispettare le proprie decisioni, tanto più soccombe alle pressioni stragiudiziali. Vi è qui una realtà da cui non possiamo prescindere: diritto e forza sono inscindibili e le decisioni dei diritto s'avvicinano alla giustizia. cui aspira quella comunità nel cui nome e interesse vengono pronunciate le sentenze, solo nella misura in cui tale comunità ha il potere effettivo di imporre il rispetto del proprio ideale legalitario. Oggi siamo però lontanissimi dal possedere una organizzazione sovranazionale che possa emettere verdetti di autorità incontestata e imporre con la forza di sottomettersi all'esecuzione delle sue sentenze. Giungo così al mio primo assioma: la ricerca della sicurezza internazionale implica che ogni Stato rinunci incondizionatamente a una parte della sua libertà d'azione, vale a dire alla sua sovranità, ed è assolutamente chiaro che non v'è altra strada per arrivare a siffatta sicurezza. (... )
Ho parlato sinora soltanto di guerre tra Stati, ossia di conflitti internazionali. Ma sono perfettamente consapevole del fatto che l'istinto aggressivo opera anche in altre forme e in altre circostanze (penso alle guerre civili, per esempio, dovute un tempo al fanatismo religioso, oggi a fattori sociali; o, ancora, alla persecuzione di minoranze razziali). Ma la mia insistenza sulla forma più tipica, crudele e pazza di conflitto tra uomo e uomo era voluta, perché abbiamo qui l'occasione migliore per scoprire i mezzi e le maniere mediante i quali rendere impossibili tutti i conflitti armati.
So che nei Suoi scritti possiamo trovare risposte esplicite o implicite a tutti gli interrogativi posti da questo problema che è insieme urgente e imprescindibile.
Sarebbe tuttavia della massima utilità a noi tutti se Lei esponesse il problema della pace mondiale alla luce delle Sue recenti scoperte, perché tale esposizione potrebbe indicare la strada a nuovi e validissimi modi d'azione.
Molto cordialmente Suo, Albert Einstein
La risposta di Freud
Vienna, Settembre 1932Caro signor Einstein,
quando ho saputo che Lei aveva intenzione di invitarmi a uno scambio di idee su un tema che Le interessa e che Le sembra anche degno dell'interesse di altri, ho acconsentito prontamente. Lei comincia con il rapporto tra diritto e forza. Là certamente il punto di partenza giusto per la nostra indagine. Posso sostituire la parola, "forza" con la parola più incisiva e più dura "violenza". Diritto e violenza sono per noi oggi termini opposti. È facile mostrare che l'uno si è sviluppato dall'altro e, se risaliamo ai primordi della vita umana per verificare come ciò sia da principio accaduto, la soluzione del problema ci appare senza difficoltà. (... )
Da tempi immemorabili l'umanità è soggetta al processo dell'incivilimento (altri, lo so, chiamano più volentieri questo processo: civilizzazione). Dobbiamo ad esso il meglio di ciò che siamo divenuti e buona parte di ciò di cui soffriamo. Le sue cause e origini sono oscure, il suo esito incerto, alcuni dei suoi caratteri facilmente visibili. Forse porta all'estinzione del genere umano, giacché in più di una guisa pregiudica la funzione sessuale, e già oggi si moltiplicano in proporzioni più forti le razze incolte e gli strati arretrati della popolazione che non quelli altamente coltivati.
Dei caratteri psicologici della civiltà, due sembrano i più importanti: il rafforzamento dell'intelletto che comincia a dominare la vita pulsionale, e l'interiorizzazione dell'aggressività, con tutti i vantaggi e i pericoli che ne conseguono. Orbene, poiché la guerra contraddice nel modo più stridente a tutto l'atteggiamento psichico che ci è imposto dal processo civile, dobbiamo necessariamente ribellarci contro di essa: semplicemente non la sopportiamo più; non si tratta soltanto di un rifiuto intellettuale e affettivo, per noi pacifisti si tratta di un'intolleranza costituzionale, per così dire della massima idiosincrasia. E mi sembra che le degradazioni estetiche della guerra non abbiano nel nostro rifiuto una parte molto minore delle sue crudeltà.
Quanto dovremo aspettare perché anche gli altri diventino pacifisti? Non si può dirlo, ma forse non è una speranza utopistico che l'influsso di due fattori - un atteggiamento più civile e il giustificato timore degli effetti di una guerra futura - ponga fine alle guerre in un prossimo avvenire. Per quali vie dirette o traverse non possiamo indovinarlo. Nel frattempo possiamo dirci: tutto ciò che promuove l'evoluzione civile lavora anche contro la guerra.
La saluto cordialmente e Le chiedo scusa se le mie osservazioni L'hanno delusa.
Suo, Sigmund Freud
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Siria,
cronologia di una rivolta diventata guerra.
Il
15 marzo 2011, dopo oltre 45 anni di governo Assad, migliaia di
siriani scendono in piazza a Damasco e Aleppo in maniera trasversale
e nonviolenta per protestare contro il governo. È una delle prime
manifestazioni di dissenso di massa della storia recente del Paese,
che degenereranno in ribellione armata e guerra civile a causa di una
durissima repressione del governo.
Da
allora la Siria, un Paese di 22 milioni di abitanti, è il campo di
battaglia di una guerra per procura, che in quattro anni ha distrutto
le infrastrutture del Paese,
raso
al suolo Homs e buona parte di Aleppo, distrutto il patrimonio
artistico di Maaloula, inflitto gravi danni ai resti archeologici di
Palmira, distrutto la vita di milioni di bambini, ucciso oltre 200
mila persone e costretto alla fuga oltre 3 milioni di rifugiati. In
realtà le prime proteste scaturiscono dall’arresto
a
Daraa, città nel Sud del Paese, vicino alla Giordania,di alcuni
ragazzi tra i 13 e i 16 anni, colpevoli di aver scritto, il 6 marzo
2011, sul muro di una scuola «Il popolo farà cadere il governo» e
«È il tuo turno, dottore», messaggio indirizzato al presidente
Assad.
La
notizia degli arresti si diffonde velocemente e le manifestazioni
cominciano a moltiplicarsi, complice la povertà, la disoccupazione,
i profughi arrivati dal
Nord
del Paese a causa della siccità a cui il governo non aveva saputo
provvedere e le notizie di folle che, scese in piazza nel resto del
mondo arabo, erano riuscite a rovesciare il governo tunisino e quello
egiziano.
Il
“regno del silenzio”, come era stata definita la Siria dalla rete
televisiva Al Jazeera, comincia a vacillare. Dopo quattro mesi di
repressioni e proteste, il 29 luglio 2011 un gruppo di ufficiali
disertori proclama la nascita del Free Syrian Army (Esercito Libero
Siriano) e le proteste sfociano in guerra civile.
Gli
attori del dramma
Dopo
quattro anni di conflitto, semplificando al massimo un intricato
sistema di
alleanze,
gli attori in campo sono quattro schieramenti principali: l’esercito
fedele al presidente Assad (sostenuto da milizie irregolari, dal
movimento libanese Hezbollah,dall’Iran e da milizie sciite
irachene);
le
forze ribelli (con un fronte “moderato” costituito dall’Esercito
Libero Siriano, che gode di un certo appoggio internazionale, e un
fronte islamico tradizio-
nalista
– salafita – costituito principalmente da Jabhat Al Nusra e Ahrar
Al Sham); lo “Stato Islamico” (ISIS), una delle formazioni più
forti all’interno dell’ “opposizione”,dedita soprattutto a
conquistare territorio e alla crea-
zione
di uno pseudo-stato; la regione autonoma defacto del Kurdistan
Siriano (Rojava), che tenta di affermare un governo democratico e
difendere i propri
territori
dall’ISIS. Vi è anche una fitta rete di organizzazioni della
società civile e di comitati di coordinamento locale che difendono e
autogestiscono le zone
sotto
il loro controllo.
Ad
oggi, gli sforzi della comunità internazionale per cercare di
risolvere o mitigare il conflitto non hanno ottenuto alcun risultato:
due conferenze di pace a Ginevra sono fallite, le spedizioni di
soccorso internazionale e la tentata creazione di corridoi umanitari
nelle città assediate non hanno avuto successo,
mentre
la guerra diventa sempre più sanguinosa, le condizioni di vita
sempre più inumane e le conseguenze a livello regionale si fanno
sempre più pesanti.
L’impatto
sulla regione
La
questione siriana porta con sé la destabilizzazione del Medio
Oriente, con conseguenze su tutti i Paesi della regione: sul Libano,
che vive al ritmo degli avvenimenti in Siria (scontri confessionali a
Tripoli, sostegno di Hezbollah – il partito libanese sciita vicino
al gruppo religioso degli alawiti a cui appartiene Assad–
alla
guerra in territorio siriano, attentati kamikaze, uccisione del capo
dei servizi segreti, ingerenze di terroristi nel Nord della valle
della Bekaa, attacchi dal Sud contro Israele e cellule salafite a
Saida); sulla Giordania, asfissiata dall’arrivo massiccio di
rifugiati su un tessuto economico fragile; sulla Turchia, dove vive
una forte minoranza curda, ovviamente vicina ai curdi dell’Iraq; su
Israele, per l’impatto indiretto sui palestinesi e per il fatto che
la Siria di Assad “garantiva” una sorta di stabilità nel quadro
di una pace armata stabilitasi tra i due Paesi; sull’Iran, potenza
regionale cheappartiene all’Islam sciita, in concorrenza con
l’Arabia Saudita, dove predomina l’Islam sunnita.
Sul
piano internazionale la Siria si appoggia a Iran, Russia e Cina, come
alleata nello spazio mediterraneo.
23
Ma
la situazione è ancora più complessa. La fragilità dei regimi
mediorientali, il periodo di instabilità che vive la regione, la
mancanza di veri leader nel
mondo
arabo, il declino dell’influenza americana e il tracollo economico
dell’Occidente sono fenomeni legati tra loro, poiché rappresentano
le diverse manifestazioni di un’unica “crisi di sistema” che
riguarda tutti.
In
questa fase di indebolimento dell’influenza degli Stati Uniti in
Medio Oriente, la guerra civile in Siria e la partita iraniana – di
cui la questione nucleare costi-
tuisce
solo un aspetto – emergono allora come elementi chiave di una
competizione più ampia per la ridefinizione degli equilibri mondiali
e l’accaparra-
mento
delle risorse del pianeta
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.
COSA
C’È ALL’ORIGINE DELLA CRISI SIRIANA
Succede
un po’ ovunque nel Medio Oriente che molti elementi confluiscano e
si intersechino per mantenere una situazione di instabilità
politica. La loro impor-
tanza
specifica è oggetto di studio e di dibattito. Per quanto riguarda la
Siria è possibile tentare un “elenco”,forse non completo, di
queste cause. Anche se complesse, non dovrebbero giustificare nessuna
indifferenza davanti a un dramma così grande, ma piuttosto stimolare
il senso di responsabilità di tutti gli attori.
A)
Elementi di tensione fra potenze internazionali
1.
Competizione
Stati Uniti – Russia. Alla Russia l’alleanza con la Siria serve
come sbocco nel Mediterraneo e come potenza egemonica di fronte
all’America.
2.
Le
vie del petrolio passano anche dalla Siria e l’America non può
essere insensibile. Inoltre, non vorrebbe sostenere un dittatore
(Assad), ma l’Iraq
insegna
che, eliminato Saddam, e sostenendo i
suoi
oppositori, l’America ha invece perso in-
fluenza
a vantaggio – non certo voluto – dell’Iran.
B)
Elementi di tensione/interessi fra potenze europee
Vi
è una certa rivalità storica anche tra Francia e Inghil-
terra
sulle antiche sfere di influenza coloniali. Dopo la
sconfitta
dell’Impero ottomano nel 1918, la Francia ot-
tenne
il mandato su Siria e Libano per “proteggere i
cristiani”,
l’Inghilterra ebbe l’Iraq e la Giordania per ar-
rivare
fino a Suez e quindi garantirsi lo stretto, sempre
necessario
per raggiungere l’India. Anche la Russia
degli
zar voleva proteggere gli ortodossi dell’Impero
ottomano.
C)
Israele e il rapporto di “vicinato”
La
prima guerra con gli Stati arabi fu dichiarata nel
1948,
il giorno dopo l’indipendenza di Israele, seguita
da
conflitti nel 1956, 1967,1973, 1982, 2006, ... Israele
occupa
dal 1967 le alture del Golan (Siria) e controlla
la
Cisgiordania, dove vive la popolazione palestinese.
La
tensione nasce fra Palestina, sostenuta da Assad, e
Israele,
protetto dall’America.
D)
Tensioni religiose arabo/persiane (sunniti/sciiti)
Antiche
tensioni religiose tra i due gruppi più impor-
tanti
dell’Islam: sunniti (Penisola Arabica, Turchia, Gior-
dania,
Palestina) e sciiti. Sono sciiti quasi tutti gli
iraniani,
il 60% degli iracheni e circa un terzo dei liba-
nesi
(Hezbollah). In Siria c’è il gruppo religioso degli
alawiti,
di origine sciita. Rappresentano solo il 6/7%
della
popolazione, ma hanno un ruolo egemone poli-
ticamente,
grazie all’entourage di Assad, che è alawita.
L’Iran
sostiene gli alawiti di Siria e gli Hezbollah liba-
nesi.
Gli USA sono alleati dell’Arabia Saudita in fun-
zione
anti-Iran.
Il
potere in Medio Oriente è tradizionalmente propor-
zionale
alla percentuale delle varie religioni presenti.
È
la dottrina del “confessionalismo”. Non esiste la laicità
in
senso occidentale (indipendenza di sfera religiosa
e
politica).
E)
La Turchia, antica potenza egemonica
I
turchi hanno dominato il Medio Oriente (e i Balcani)
per
quattro secoli, soppiantando i precedenti califfi
arabi
che avevano creato un impero dalla Spagna al-
l’India.
Hanno finito di essere un impero dopo la scon-
fitta
nella prima guerra mondiale e quando Ataturk
soppresse
il Califfato, nel 1924. La Turchia considera la
Siria
area strategica da controllare per evitare che le
minoranze
curde che si trovano nei due Paesi sfug-
gano
al controllo.
F)
Il paradosso siriano, la laicità non riuscita
C’era
il tentativo di realizzare una certa laicità di go-
verno
con il partito Baath, al potere dal 1963. Il legame
nazionale
doveva essere al di sopra dell’appartenenza
religiosa.
Ma nel 1970, quando va al potere Assad
padre,
si ricade in una forma di confessionalismo, pri-
vilegiando
gli alawiti che, prima disprezzati, si impa-
droniscono
di quasi tutte le leve del potere.
Il
potere si fa autocratico: le prime ribellioni sono in-
fatti
contro l’oligarchia, non contro la setta religiosa in
sé.
Le prime manifestazioni nel 2011 erano infatti pa-
cifiche
e vi erano anche dissidenti intellettuali alawiti.
La
repressione è stata violenta e l’opposizione assume
accenti
religiosi, fino all’arrivo delle milizie estremiste
dell’ISIS
nell’estate del 2014. Ora è la guerra di tutti
contro
tutti. E tutti hanno aspettato di vedere chi se
ne
avvantaggiava. Nessuno può vincere, nessuno può
perdere.
Il
quadro siriano, già così fosco, si fa ancora più nero
se
si considerano gli altri conflitti della regione:
– il
conflitto in Iraq (1991 e dal 2003 al 2015);
– il
conflitto libanese (1975-1990);
– il
conflitto Iran-Iraq (1980-1988);
– il
conflitto d’estate tra Israele e Libano (2006) e l’at-
tuale
presenza delle forze di interposizione al confine
tra
i due Paesi;
– il
conflitto a Gaza (2014).
Dopo le stragi di Bruxelles
7 idee per fare pace in
tempo di guerra
1. La morte non ci deve mai trovare indifferenti. Non importa chi sia la vittima, la sua nazionalità, la sua religione, il colore della sua pelle, il luogo dell’accadimento. Non possiamo piangere solamente le “nostre” vittime. Ogni vittima è un nostro fratello o una nostra sorella. Non abituiamoci mai all’orrore. L’abitudine nasconde la rassegnazione. L’abitudine e la rassegnazione alle stragi, alle uccisioni, alla morte, alla violenza ci tolgono la dignità e uccidono la nostra umanità.
2. Il problema che dobbiamo affrontare è complesso. Il che non significa che sia irrisolvibile. Ma (di fronte ad ogni problema complesso) dobbiamo rifiutare le semplificazioni. Le cose da fare per vincere il terrorismo sono molte e ci coinvolgono tutti, collettivamente e individualmente. Richiedono tempo, pazienza, conoscenza, determinazione, costanza. Serve un’accelerazione in tanti campi ma fuggiamo dallo slogan facile e da tutti quelli che puntano il dito e innalzano muri contro gli altri, l’Islam, gli islamici, i migranti, le donne e gli uomini in fuga dalla guerra e dal terrore…
3. Agire con intelligenza. La componente “militare” del terrorismo va combattuta, fermata, neutralizzata con l’intelligenza, le indagini di polizia, la collaborazione tra i servizi di sicurezza, la lotta alla criminalità e ai traffici di droga e di armi, i sistemi di prevenzione. Servono unità, volontà politica, condivisione, cooperazione e coordinamento delle informazioni, delle politiche, risorse economiche adeguate. Cosa vuol dire “siamo in guerra!”? Per questa “guerra” bombe e cacciabombardieri, missili e portaerei sono inutili e inutilizzabili. Ogni volta che li usiamo estendiamo e radicalizziamo le basi del terrorismo. Quindici anni di “guerra al terrorismo” hanno prodotto risultati disastrosi. Dobbiamo smettere di buttare i nostri soldi per fare cose sbagliate e inconcludenti. E’ ora di cambiare decisamente strada. Smettere di fare la guerra non è un moto di pace ma la vittoria del buon senso.
4. Fermare le guerre. Il terrorismo ha molte radici ma la storia ci dice che le guerre in corso lo alimentano. Per questo è nostro interesse lavorare attivamente per fermarle. La loro continuazione e proliferazione non solo allunga la scia dell’orrore e del dolore ma fomenta il terrorismo, lo foraggia, lo estende. Giustificare una guerra col pretesto della lotta al terrorismo è pura ipocrisia. Fermare le guerre è un dovere di tutti i responsabili della politica internazionale. E’ il primo passo di chi ha il dovere e la responsabilità di costruire pace e sicurezza. Per andare alle radici del problema occorre inoltre contrastare con fermezza i traffici legali e illegali delle armi e la loro produzione.
5. Disertare la guerra delle parole. Lo possiamo fare tutti. Le parole uccidono. Prima delle bombe le parole della guerra seminano il terrore, fomentano l’odio, distruggono la ragione. E’ urgente costruire un argine a quelli che speculano sulle paure e sull’indignazione dei cittadini, che vogliono sostituire il buonismo con la cattiveria, che approfondiscono le divisioni, creano nuovi nemici ed erigono sempre nuove barriere. In televisione, nel web, alla radio e sulla carta stampata chi vuole sinceramente la pace deve disertare la guerra delle parole. La grammatica della pace getta acqua sul fuoco della discordia, spegne le polemiche, isola i malvagi, unisce le donne e gli uomini onesti in un fronte comune.
6. Bonificare le periferie intossicate. Combattere la disoccupazione, sradicare la povertà, lottare contro l’esclusione sociale e l’emarginazione, ridurre le disuguaglianze, promuovere il riconoscimento delle diversità, il dialogo interculturale e interreligioso, favorire l’integrazione, educare alla cittadinanza globale, alla solidarietà e all’accoglienza devono essere tra le priorità di chi vuole sradicare il terrorismo dalle nostre città, dall’Europa e dal mondo intero. Il radicalismo si nutre del malessere sociale, economico e morale, dell’ignoranza e dei fenomeni di esclusione dilaganti. Le politiche sociali, culturali ed educative sono strumenti essenziali di una efficace strategia di lotta al terrorismo.
7. Vincere il male con il bene. Non è una sciocca utopia. E’ la via più concreta, costruttiva ed efficace per uscire dal circolo vizioso del male. Il male non conosce limiti né confini. L’illusione di poterlo sconfiggere con gli stessi mezzi alimenta una escalation di violenza senza fine, limiti e confini. Alla teoria della guerra infinita noi dobbiamo contrapporre la volontà di disertare la guerra ovvero la volontà di interrompere la spirale del terrore per non venire stritolati. Con lucida consapevolezza dobbiamo constatare che la violenza non risolve mai i problemi ma li aggrava. Vincere il male con il bene richiede un lungo e impegnativo lavoro a tutti i livelli, esige una larga assunzione di responsabilità e la ricerca costante del bene comune. La violenza divide. La ricerca del bene comune unisce. La violenza paralizza. La ricerca del bene comune mobilita.
Flavio Lotti
Coordinatore Tavola della pace
Perugia, 25 marzo 2016
Il Papa: "La Terza guerra mondiale è già iniziata"
Il dolore di Francesco di
ritorno dalla Corea: "Siamo di fronte a un nuovo conflitto
globale, ma a pezzetti. Nel mondo c'è un livello di crudeltà
spaventosa, la tortura è diventata ordinaria. Sì, un aggressore
'iROMA - "Siamo entrati nella Terza guerra
mondiale, solo che si combatte a pezzetti, a capitoli". Non usa
mezzi termini Papa Francesco sulle crisi internazionali in corso
durante il volo di ritorno dalla
missione in Corea del Sud, atterrato oggi a
Ciampino (Roma) alle 18. Il Pontefice ha denunciato l'efferatezza
delle guerre non convenzionali e che sia stato raggiunto "un
livello di crudeltà spaventosa" di cui spesso sono vittime
civili inermi, donne e bambini. "La tortura è diventata un
mezzo quasi ordinario". Questi "sono i frutti della guerra,
qui siamo in guerra, è una Terza guerra mondiale ma a pezzi".
Il Pontefice, molto
scosso dagli avvenimenti e dai sanguinosi combattimenti
nel mondo, soprattutto in Siria e Iraq, ha aggiunto di "essere
pronto a recarsi nel Kurdistan" iracheno per pregare e alleviare
la sofferenza delle popolazioni colpite dalla guerra: "In questo
momento non è la cosa migliore da fare, ma sono disposto a questo".
ngiusto' deve essere fermato, ma senza bombardare o fare la guerra".
"Solo l'Onu può decidere come fermare un aggressore".
"Dove c'è un'aggressione ingiusta posso solo dire che è lecito
fermare l'aggressore ingiusto", ha aggiunto Francesco riguardo
alla situazione in Iraq, "sottolineo il
verbo fermare, non bombardare o fare la guerra. Una sola nazione non
può giudicare come si ferma l'aggressione. Dopola Seconda guerra
mondiale questo compito è delle Nazioni Unite.
Dopo la Seconda guerra
mondiale questo compito è delle Nazioni Unite. Dobbiamo avere
memoria di quante volte con questa scusa di fermare l'aggressione
ingiusta le potenze si sono impadronite dei popoli e hanno fatto vere
guerre di conquista". Secondo Francesco, comunque, "fermare
l'aggressore ingiusto è un diritto che ha l'umanità, e quello di
essere fermato è un diritto che ha l'aggressore. Io posso dire
soltanto questo: sono d'accordo sul fatto che quando c'è un
aggressore ingiusto venga fermato". Pace tra Israele e
palestinesi ancora possibile". Riguardo a un'altra
gravissima crisi internazionale come
quella tra Israele e Palestina, Francesco ha
ribadito che la
sua recente preghiera con il presidente
israeliano Shimon Peres e quello palestinese Abu Mazen "non è
assolutamente stata un fallimento. Volevamo che l'incontro per
pregare si realizzasse già durante la mia visita in Terra Santa ma
non si trovava il posto giusto: il costo politico di andare
dall'altro sarebbe stato troppo alto per ciascuno dei leader. Così
abbiamo deciso di incontrarci tutti in Vaticano. Certo poi è
arrivato quel che è arrivato", ha continuato Francesco
riferendosi alla successiva offensiva israeliana sulla Striscia, "ma
è qualcosa di congiunturale. L'incontro di preghiera non lo era: è
stato un passo fondamentale perché si è aperta una porta. Il fumo
delle bombe ora non lascia vedere la porta aperta. Ma io credo in Dio
e credo che quella porta è stata aperta".
Articolo sulla Repubblica.it
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