LA NECESSITA’ DEL RICICLAGGIO PER L’ECONOMIA CRIMINALE
Riciclaggio ed economia criminale sono due mali che si tengono per mano, che si autoalimentano. Senza il riciclaggio, il denaro delle mafie sarebbe un ricavato inerte. È necessario che rientri in circolo. Dal riciclaggio spicciolo, ad esempio il reinvestimento nel mattone, sino alla creazione di fiduciarie estere, diventa parte rilevante dell’economia planetaria.
A livello mondiale, secondo il FMI - Fondo Monetario Internazionale il denaro sporco muove tra il 3 e il 5% del Pil del pianeta, una cifra che oscilla tra 600 e 1500 miliardi di dollari solo negli Usa, pari all’intera economia italiana.
In ambito europeo, il bilancio globale della holding del denaro sporco è di 600 miliardi di euro.
In Italia l'economia criminale, cioè i proventi di attività come contrabbando, traffico di armi, smaltimento illegale di rifiuti, gioco d'azzardo, ricettazione, prostituzione e traffico di stupefacenti, (senza contare i reati violenti come furti, rapine, usura ed estorsioni) vale 170 miliardi di euro l'anno.
Per la Guardia di Finanza nel 2013 il denaro sporco immesso nel sistema economico valeva più del 10% del Pil e sottraeva 75 miliardi al Fisco. Le attività criminali più redditizie, nel rapporto della GdF, sono il narcotraffico (con 7,7 miliardi di euro), seguito dalle estorsioni (4,7 miliardi), dallo sfruttamento della prostituzione (4,6 miliardi) e dalla contraffazione (4,5 miliardi). Nel 2013 i sequestri della Finanza alla criminalità organizzata erano ammontati a 3 miliardi di euro (meno del 2% del fatturato criminale).
Il riciclaggio rappresenta un ponte fra criminalità e società civile, perché offre ai criminali gli strumenti per essere invece accolti e integrati nel sistema:
Tra il 2009 ed il 2013 le operazioni sospette segnalate all'Unità di informazione finanziaria (Uif) della Banca d'Italia sono aumentate di quasi il 212%. Quasi il 60 per cento delle segnalazioni registrate a livello nazionale è concentrato in Lombardia (11.575 segnalazioni), Lazio (9.188), Campania (7.174), Veneto (4.959) ed Emilia Romagna (4.947).
Il 40% dei proventi riciclati dalle cosche calabresi è oggi reinvestito in tre regioni italiane: Liguria, Piemonte e Lombardia, in settori quali gli appalti pubblici, lo smaltimento dei rifiuti, i giochi e le scommesse.
L’economia criminale è anche l’unica parte di economia nazionale che non ha risentito della crisi. Anzi, ha guadagnato dalla crisi.
CRISI, MAFIA E BANCHE
Fin dagli anni ’70, con la globalizzazione del crimine organizzato, si è creato un vincolo tra mafia e banche. Alla fine degli anni ’80 le autorità fecero passi avanti contro la penetrazione del riciclaggio criminale negli istituti finanziari e da quel momento i soldi cominciarono ad uscire dalle banche e a tornare in contanti. Poi accaddero due cose: la crisi finanziaria in Russia (dopo l’affermazione della mafia russa) e la crisi finanziaria globale del 2008. Con queste crisi, il settore finanziario si ritrovò a corto di liquidità, così le banche si aprirono ai cartelli criminali, che avevano i soldi in tasca.
Nel dicembre 2009 l’allora responsabile dell’Ufficio Droga e Crimine dell’ONU, Antonio Maria Costa, fece una dichiarazione scioccante: rivelò che i guadagni delle organizzazioni criminali erano stati l’unico capitale d’investimento liquido che alcune banche avevano avuto a disposizione durante la crisi del 2008 per evitare il collasso. Così i prestiti interbancari iniziarono a essere sistematicamente finanziati con i soldi provenienti dal traffico di droga e da altre attività illecite. Alcune banche si salvarono solo grazie a questi soldi. Gran parte dei 352 miliardi di dollari provenienti dal narcotraffico sono stati assorbiti dal sistema economico legale, perfettamente riciclati.
Un’inchiesta di un paio di anni fa di due economisti colombiani, Alejandro Gaviria e Daniel Mejiia dell'Università di Bogotà, ha rivelato che il 97,4% degli introiti provenienti dal narcotraffico in Colombia viene puntualmente riciclato da circuiti bancari di Usa ed Europa attraverso un sistema di pacchetti azionari, un meccanismo di scatole cinesi per cui i soldi contanti vengono trasformati in titoli elettronici, e con una serie di passaggi diventano puliti e irrintracciabili.
Nemmeno il “Patriot Act”, voluto dagli USA all’indomani dell’11 settembre allo scopo di prevenire, individuare e perseguire il riciclaggio internazionale di denaro e il finanziamento del terrorismo – e che stabilisce che il Dipartimento del Tesoro americano può richiedere agli istituti finanziari nazionali di intraprendere misure speciali nei confronti di giurisdizioni, istituti o conti bancari stranieri sospettati di essere coinvolti nel riciclaggio di denaro sporco – è stato sufficiente ad allontanare i flussi di denaro sporco dall’economia e dalla finanza americana.
Secondo alcuni esperti, New York e Londra, con le loro banche, sarebbero diventate le due più grandi lavanderie di denaro sporco del mondo. Non più i paradisi fiscali come le Cayman Islands, o la Isle of Man. Ma la City di Londra e Wall Street.
Naturalmente la Svizzera continua ad essere un approdo sicuro sia per i soldi degli evasori fiscali, sia per i soldi delle organizzazioni criminali di tutto il mondo.
A questo proposito, a febbraio 2015 è stato firmato il Protocollo tra Italia e Svizzera in materia fiscale, che pone finalmente le condizioni per la fine del segreto bancario fra i due Paesi. Bisognerà però attendere il settembre 2018 per il primo scambio automatico di informazioni di carattere finanziario (con riferimento all'anno 2017). Tre anni di attesa che forse daranno ai criminali il tempo per organizzarsi e trovare vie alternative per nascondere i loro capitali.
Ma poi, quanto sarà davvero efficace questa misura? Quanti si convinceranno a far rientrare i propri capitali e a regolarizzarli, soprattutto se derivano da attività illecite?
IL CASO FILIPPO DOLLFUS DE VOLCKESBERG
Il barone e finanziere svizzero Filippo Dollfus De Volckesberg, indagato per associazione a delinquere finalizzata al riciclaggio transnazionale, è stato arrestato tra il 24 e il 25 aprile a Milano, nella sua casa vicino al Castello Sforzesco.
Dollfus è accusato di essere a capo di una delle più grandi holding del riciclaggio mai scoperte in Italia, con base a Lugano, che nel corso degli ultimi decenni avrebbe aiutato professionisti e imprenditori italiani a trasferire all'estero denaro e utilità nella gran parte dei casi provenienti da delitti di appropriazione indebita, evasione fiscale, corruzione o riciclaggio. Nella lista dei suoi 'clienti' (tutti non indagati, tranne Caltagirone Bellavista e Rita Rovelli) compaiono professionisti, nobili, broker assicurativi, costruttori, imprenditori del settore siderurgico, manager.
La gestione occulta del denaro attraverso paradisi fiscali è stata garantita dal segreto bancario.
Il totale del denaro movimentato in 40 anni di attività dell’organizzazione raggiungerebbe alcuni miliardi di euro. Tra i clienti del gruppo Dollfus ci sarebbe stato l’imprenditore Francesco Bellavista Caltagirone (anch’egli indagato) che avrebbe così ripulito i proventi di reati di appropriazione indebita e frode nelle pubbliche forniture contestati dalla Procura di Civitavecchia nel progetto di realizzazione del Porto Turistico di Civitavecchia.
CASO UBS e CREDIT SUISSE
Nel 2008, il Dipartimento di Giustizia americano iniziò indagini sulla maggiore banca svizzera, l’UBS, per favoreggiamento dell’evasione fiscale negli Stati Uniti. Un anno dopo, la banca ammise la sua colpevolezza e pagò una multa di 780 milioni di dollari. Inoltre il governo svizzero autorizzò anche la trasmissione di circa 4500 nomi di clienti di UBS al fisco statunitense, aprendo una breccia nel segreto bancario svizzero.
Il Dipartimento di Gustizia USA avviò inchieste penali nei confronti di 14 altre banche svizzere, con risultati pesanti, incriminando la banca Wegelin, la più vecchia del paese (costretta ad abbandonare le sue attività negli Stati Uniti) e la banca Frey che cessò le operazioni a causa delle indagini negli Stati Uniti.
Per porre fine al contenzioso fiscale, nell’agosto 2013 Berna e Washington firmarono un accordo di non perseguimento penale. In cambio gli istituti devono però fornire informazioni sulle loro operazioni transfrontaliere, ma non sono tenute a trasmettere agli Stati Uniti i nominativi dei clienti a meno di una richiesta esplicita di assistenza amministrativa. Alla fine del 2013, 106 istituti avevano aderito al programma americano.
Nel febbraio 2014, il Credit Suisse si dichiarò colpevole di aver cospirato per aiutare i suoi clienti americani più facoltosi a nascondere i propri asset offshore per evadere le tasse, diventando così la prima banca in vent’anni ad ammettere un reato negli Stati Uniti (UBS, infatti, aveva accettato il patteggiamento ma non si era dichiarata colpevole). Accettò di pagare 2,6 miliardi di dollari per chiudere l'indagine. Il rapporto realizzato dalla commissione d’indagine permanente del Senato presieduta da Carl Levin era degno di una sceneggiatura di un film di spionaggio. Tra 2002 e il 2008 i banchieri di Credit Suisse hanno effettuato 150 viaggi negli Stati Uniti: si tratta, complessivamente, di 1.800 banchieri coinvolti. I banchieri corteggiavano i potenziali clienti americani sui campi di golf della Florida e a balli a New York. Le trattative avvenivano negli ascensori e gli estratti conti venivano recapitati tra le pagine di magazine sportivi come Sport Illustrated.
Malgrado le ammissioni del Credit Suisse, però, soltanto 238 nomi - dei 22.000 clienti che la banca aveva nel 2008, che valevano 12 miliardi di franchi svizzeri - sono stati comunicati alle autorità statunitensi. Ciò è il risultato dell’accordo tra Berna e Washington dell’agosto 2013, che permette che gran parte dei nomi dei titolari dei conti rimangano ancora segreti.
Nell'annunciare il patteggiamento con Credit Suisse, il segretario alla Giustizia americano, Eric Holder, disse: "La redditività o la quota di mercato di una banca non possono e non saranno mai usate come scudo dall'essere perseguite o punite. Questo caso mostra come nessuna istituzione finanziaria, qualunque sia la sua dimensione, è al di sopra della legge". Eppure non molti anni prima le autorità americane erano state criticate per non aver colpito nessuna delle banche coinvolte nella crisi, tanto da far ritenere che alcune banche fossero troppo grandi per finire alla sbarra: il cosiddetto “too-big-to-jail” (=troppo grande per finire in galera).
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