iemerge un saggio del 1972 nel quale lo scrittore di Racalmuto
raccontava i rapporti tra i poteri pubblici e poteri illegali, quasi una
preistoria della fantomatica “trattativa”, oggi al centro delle
polemiche.
Palermo. La storia della mafia di Leonardo Sciascia fu pubblicata nel 1972 nella mondadoriana rivista Storia illustrata.
Da allora era dispersa. Appena 35 pagine, che diventano 65 con
l’intervista di Giancarlo Macaluso a Stefano Vilardo (amico di Sciascia
dal ’36) e un’analisi di Salvatore Ferlita. L’operazione di recupero la
si deve alla casa editrice Barion, resuscitata dalla “pancia” della
storica Mursia. È un tesoro nascosto. Sciascia, anzitutto, scopre nel
suo studio che la parola mafia già appare nel primo vocabolario
siciliano di Traina (1868) come importata dal Piemonte, sulle ali della
spedizione dei Mille di Garibaldi. Tuttavia, spiega lo scrittore, per lo
studioso di tradizioni popolari Giuseppe Pitrè era solo “una
ipertrofia” dell’ego ribellista. Poi arriva Giuseppe Rizzotto. Nel 1862
scrive I mafiosi di la Vicaria (una prigione di Palermo) e la
mafia diventa “associazione”. Ma, annota Sciascia, sarà un procuratore,
Alessandro Mirabile, che nelle sue requisitorie parlerà di “setta”.
Sciascia, a questo punto, sottolinea: “Alcuni, anche in buona fede,
credono che applicando la parola alla cosa si tenda a creare un
pregiudizio”. È ingiusto, affermano costoro, che a Milano una banda di
rapinatori sia una semplice banda, mentre in Sicilia diventa cosca (“la
cosca” ricorda “è la corona di foglie del carciofo”). Sciascia, su
questo, è netto: “La parola mafia è stata applicata alla cosa, o la cosa
ha preso quel nome, in forza di una distinzione qualitativa… questa
distinzione già vien fuori nel 1838 da una relazione di don Pietro
Ulloa, allora procuratore generale a Trapani”. E cosa scrive Ulloa nel
1838? Parla di “oscure fratellanze”, “sette segrete che diconsi
partiti”, un popolo che le fiancheggia, magistrati che le proteggono. E
“al centro di tale dissoluzione c’è una capitale col suo lusso e le sue
pretensioni feudali in mezzo al secolo XIX”. Commenta Sciascia:
“Leggeremo mai, negli archivi della commissione parlamentare antimafia,
una relazione acuta e spregiudicata come questa di don Pietro Ulloa?”.
Sciascia sposa la tesi dello storico inglese Eric Hobsbawm: in
Sicilia la “rivoluzione francese” l’ha fatta la mafia. I feudi passano
di mano, dai baroni ai borghesi. I contadini promossi campieri ne
diventano l’esercito. E rilegge (altro punto importante) Il Gattopardo di
Giuseppe Tomasi di Lampedusa in chiave “antimafia”. Il passaggio
epocale, spiega, è chiaro nel personaggio di Calogero Sedara e nella
famosa frase del principe di Salina: “Noi fummo i Gattopardi, i Leoni:
chi ci sostituirà saranno le iene e gli sciacalli”. Iene e sciacalli,
per Sciascia, si annidarono tanto nella spedizione dei Mille quanto
nella “neutralità” verso il fascismo. Anzi, vista la presenza del
prefetto Mori, inviato dal Duce in Sicilia a combattere la mafia, se ci
fosse stata una Resistenza nell’Isola, “i boss sarebbero stati
partigiani”. Sempre iene e sciacalli si alleeranno con gli americani per
favorirne lo sbarco in Sicilia, ancora loro faranno sparire nel ’70 il
cronista dell’Ora Mauro De Mauro e uccideranno il procuratore Pietro
Scaglione nel ’71. Non mutano mai pelle, i picciotti di Cosa Nostra. Per farli vedere bene agli italiani, lo scrittore li paragona ai bravi dei Promessi Sposi di
Manzoni. Infine, la famosa “equazione” di Sciascia su Cosa Nostra: “La
mafia è una associazione per delinquere con fini di illecito
arricchimento… che si pone come intermediazione parassitaria, con mezzi
di violenza, tra proprietà e lavoro, produzione e consumo, cittadino e
Stato”.
Leonardo Sciascia, deputato nelle liste radicali tra il 1979 e il
1983, espresse diciannove volte il suo pensiero in Parlamento. Tre volte
parlò di mafia e utilizzò la sua Storia della mafia come base
per i suoi interventi. Grazie ad Andrea Camilleri, che li ha riordinati
di recente, sappiamo che nel primo intervento (20 febbraio ’80) disse
che diciotto anni dopo le sue denunce “il fenomeno anziché diminuire” lo
avevano visto crescere. Nel secondo (6 febbraio ’80) accusò i colleghi:
“Tutti avete detto che la mafia insorge nel vuoto dello Stato. E invece
insorge nel pieno dello Stato!”. Nel terzo (27 gennaio ’83), dopo
l’omicidio del giudice di Trapani Ciaccio Montalto, tuonò verso il
ministro dell’Interno, Virginio Rognoni: “Lei parla della mafia come di
un fatto fisiologico. Ritengo invece che bisogna guardarlo come un fatto
patologico, e lei che è ministro dell’Interno deve guardarlo da medico
internista”.
Che voleva dire? Se cercate la malattia mafia, dovete curare il cuore
dello Stato. Il saggio di Leonardo Sciascia, che salta fuori dal
lontano 1972, riporta nell’attualità quegli interventi in Parlamento. Il
libretto è importante per parecchi motivi. Intanto, è l’unico saggio
“organico” sul tema firmato dallo scrittore di Racalmuto. Poi contiene
per la prima volta la sua celebre “equazione” sulla mafia, che lui non
abiurò fino alla morte e che citerà apertamente nei suoi interventi
parlamentari. Non solo. Ne citerà anche altri passi, tra cui la
relazione del procuratore di Trapani Pietro Ulloa del 1837, che lo
scrittore ritenne sempre attualissima: “Descriveva la mafia come
l’abbiamo conosciuta noi, ed era una mafia di procuratori del re, di
segretari comunali e di preti”, dirà nella solennità del Parlamento. La
sciasciana Storia della mafia ci restituisce un intellettuale per
intero, lo scrittore che “contraddisse e si contraddì”, come ebbe a
definirsi, non limitandosi a impiccarlo all’articolo sul Corriere della Sera del
10 gennaio dell’87 contro “i professionisti dell’antimafia”. In
quell’intervento, come noto, Sciascia criticò (senza nominarlo) il
“protagonismo” del sindaco di Palermo (oggi rieletto) Leoluca Orlando,
ma soprattutto sparò a zero contro la decisione del Csm di promuovere
Paolo Borsellino procuratore di Marsala, in barba ai criteri di
anzianità fin lì seguiti. Successivamente spiegò che, quando aveva
redatto il suo intervento, non sapeva nulla di Borsellino, ma aveva
criticato “l’assenza di regole” da parte del Csm, arma poi usata in
senso inverso, per bocciare la candidatura di Giovanni Falcone.
Soprattutto, Sciascia chiarì che aveva scritto sull’onda di eventi
traumatici. Il primo, pur rimasto sottotraccia, è il caso di Enzo
Tortora, il presentatore tv arrestato nell’83 e coinvolto nel processone
di Napoli contro la camorra.
Per inciso, Giovanni Falcone pensava che non avere stralciato la
posizione di un personaggio così famoso da un processone contemporaneo
al maxiprocesso di Palermo contro la mafia fosse “una trappola ben
organizzata” a Napoli per scatenare “pretese di impunità” per i boss
anche a Palermo. Il secondo trauma, dichiarato invece apertamente: il
suicidio del segretario della Dc siciliana Rosario Nicoletti, rimasto un
mistero. Quanto a Borsellino, dopo la pubblicazione dell’articolo, i
due si riappacificarono e, successivamente, rimasero in contatto. Il
giudice si disse certo che qualcuno “che gli voleva male” aveva giocato
il ruolo del suggeritore. Tuttavia non replicò mai allo scrittore. “Ho
amato troppo i suoi romanzi sulla mafia, ci sono cresciuto”.
Ma di quell’articolo resta la carta e il piombo, per una volta solo
tipografico, che avvolge una tragedia siciliana. Si ha un bel dire che
Sciascia e Borsellino si chiarirono. Il giudice, nel suo ultimo
intervento pubblico prima di sacrificarsi in via D’Amelio, disse che
Falcone aveva cominciato a morire il giorno della pubblicazione
dell’atto d’accusa di Sciascia. E la tragica fine dei due magistrati
avrebbe da sola dovuto scoraggiare chi ha usato in questi anni Sciascia
in chiave antigiudici. D’altra parte la vedova di Borsellino, Agnese, ha
detto di recente che Sciascia “aveva capito tutto vent’anni prima”. E
la figlia dello scrittore, Anna Maria, ha sottolineato che il padre non
voleva colpire Borsellino, ma che mal sopportava “una certa retorica
dell’antimafia”. Disonesto sarebbe però anche affermare che l’articolo
sia stato scritto “sotto dettatura”. O che fosse incoerente. La
faccenda, comunque la si giri, resta complicata. E tragica.
La simbiosi. La metastasi. La peste. Resta il fatto che Sciascia vede
incubare un’Italia futura “mafizzata”, con quello “sguardo distaccato
di un entomologo” che gli attribuisce, a ragione, l’amico Vilardo. A 23
anni aveva assistito all’omicidio del sindaco di Racalmuto, Baldassare
Tinebra. Poi aveva visto, a Caltanissetta, il popolo far ressa per
baciare la mano al boss don Calò Vizzini. Nel 1965 aveva intervistato
Giuseppe Genco Russo, padrino di Mussomeli. E aveva studiato,
“osservandolo” mentre si occupava del caso De Mauro, il capo della
squadra Mobile, Boris Giuliano, ucciso nel luglio del’79. Freddo non per
cuore duro, ma per “osservare” bene. Confidava all’amico Vilardo:
“Quando la mafia si arricchisce, e ci vuol poco con la ricchezza che
muove, sforna avvocati, medici, imprenditori, professionisti. Colletti
bianchi. Cambia la forma del mafioso, ma la sostanza resta sempre
quella”.
L’entomologo Sciascia divenne, con timore, quasi un profeta. In Todo Modo descrisse
la futura dissoluzione della Dc e il caso Moro. “Ho paura di dire cose
che possono avvenire” spiegava. Di più. Nel’72, l’anno in cui scrisse La storia della mafia (aprile), a febbraio aveva licenziato Il contesto.
Lo aveva tenuto fermo due anni. Ne aveva paura. L’ispettore del
romanzo, Americo Rogas, sembrerà a tutti Boris Giuliano, l’amico
poliziotto ucciso. E la trama? Un complotto per occultare omicidi
eccellenti, in nome della “ragion di Stato”. Dentro ci sono tutti, anche
l’opposizione. Questo valse a Sciascia una raffica di sei articoli di
critica sui giornali di area comunista (dall’Unità a Rinascita). Ma era
ben peggio il vaticinio finale del suo ispettore: “Il potere in Sicilia,
in Italia, nel mondo, sempre più degrada nella impenetrabile forma di
una concatenazione che approssimativamente possiamo dire mafiosa”.
Sembra che si parli delle inchieste sulla trattativa tra Stato e mafia.
Leonardo Sciascia, nel 1986, ascoltò la deposizione del pentito
Tommaso Buscetta al maxiprocesso di Palermo. Ne uscì sgomento. Ma poi,
dopo la sentenza, scrisse: “Il verdetto cancella l’impressione di
allora. Vi si intravede quell’osservanza del diritto, della legge, della
Costituzione che i fanatici vorrebbero far cadere in desuetudine”.
Non capì la nuova Cosa Nostra. Non poteva sapere che il mostro che
lui aveva avvistato tanti anni prima, quei picciotti sempre uguali, le
iene e gli sciacalli di ogni tempo, stavano tornando sotto forme nuove.
Dopo la breve parentesi della mafia corleonese di Totò Riina, che
dichiarò guerra allo Stato, dalle sue ceneri sono risorte, all’ombra
delle grandi corruzioni e di equilibri impenetrabili, le mafie
invisibili, aristocrazie più simili a quelle dei primordi. Muovono un
fatturato annuo (secondo lo studioso Francesco Barbagallo) di 70
miliardi di euro. E, dopo il tramonto dei corleonesi, hanno ripreso a
vivere all’ombra delle istituzioni.
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