Archivio blog

martedì 25 febbraio 2020

Discorso di GIUSEPPE DOSSETTI

GIUSEPPE DOSSETTI
Discorso tenuto a Bologna il 22 febbraio 1986 in occasione del conferimento dell’archiginnasio d’oro
E’ scritto nel Vangelo di Luca:
“Guai a voi quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti facevano i loro padri con i falsi profeti”.
Questo severo ammonimento del Signore e maestro è stato ciò che inizialmente mi ha un po’ trattenuto dall’accettare questo onore, più della convinzione di non avere titoli specifici – e anche quella,  per questa segnalazione e ancor più della resistenza interiore ad uscire dal mio abituale silenzio.
Mi sono determinato ad accettare, per il semplice fatto della sua offerta, signor Sindaco, fatta con tanta delicatezza e nobiltà che mi è parso esigesse una risposta positiva, serena, grata e cordiale.
A questo punto, quanti dovrei ringraziare. Tantissimi. Tutti.
Lei, signor sindaco, la giunta, il consiglio comunale, la città tutta, questa carissima Bologna a cui mi sono votato e l’intera regione Emilia Romagna, particolarmente il suo presidente che mi ha scritto una lettera veramente indimenticabile. La regione, dico, che mi è sempre più preziosa perché mi appare ogni volta che mi ci re-immergo dopo le sue, mie lunghe assenze, particolarmente significativa e nonostante i suoi rischi, sempre ricca di virtualità e di slanci sociali e religiosi segnalabili rispetto ad altre regioni italiane.
 Sento di dovere ringraziare voi tutti qui convenuti e anzitutto il mio arcivescovo e padre, e poi le tante persone che questa sera riconosco, e rispetto ai quali sento che è ancor più vero che non lo meriti, ma anzi ho obblighi particolarissimi e precisi nei confronti di ognuno.
Perché questo devo dire in risposta alle parole del sindaco e del carissimo relatore che ha voluto accennare ad alcuni momenti o aspetti della mia vita. Devo dire che quello che ora si vuole attribuire in qualche modo a me -tutto non è stato compiuto da me solo, questo è ovvio , ma più marcatamente è stato compiuto solo in virtù di una vasta solidarietà e di un apporto prevalente rispetto al mio, di moltissimi, dei più inventivi coerenti e fedeli di quanto io non sia stato.
In totale mi sembra, nelle molte tappe nelle varie sedi, di essere stato un prestanome che ha semmai solo rappresentato aspirazioni, intuizioni, volontà, sforzi di moltissimi, uomini e donne, grandi e umili, dotti e indotti, illustri e anonimi che sono stati i veri e non dimenticabili realizzatori di tutto. Sempre, nell’azione cattolica giovanile, nell’Università, nella Resistenza, nella Democrazia Cristiana, nella Costituente, nella rivista “Cronache Sociali”, nell’istituto per le scienze religiose, nella proposta di un rinnovamento a Bologna, persino nella nascita e nello sviluppo in Italia e all’estero della famiglia spirituale a cui appartengo e ancora nell’ultimissima Diaconia di Monte Sole che è forse più di ogni altra cosa – non opera mia o di uomini viventi, ma un puro fiore sbocciato all’improvviso dal sacrificio di centinaia di martiri e che trova in me, per un aspetto, la sua sigla convenzionale di riferimento.
Perciò in questo momento anziché fare un elenco delle persone cui sono debitoree che sarebbe davvero interminabile, mi limito solo a ricordare alcuni tra i morti.
Anzitutto mio padre e mia madre che mi hanno dato, soprattutto con il loro esempio, una solida formazione cristiana e mi han fatto esperimentare insieme a un grandissimo amore la gioia serena e la forza liberante di un senso austero e impegnato della vita.
Tra i miei maestri, nelle due Università di Bologna e di Milano Sacro Cuore, Arturo Carlo Jemolo, Antonio Cicu e Vincenzo Del Giudice che mi diedero la passione per la disciplina che ho coltivato ed insegnato.
Parallelamente negli anni della prima giovinezza un grande debito ho contratto nei confronti di alcuni sacerdoti reggiani, particolarmente di monsignor Leone Tondelli, grande esegeta del quale, dal quale ho imparato ad amare la Scrittura e soprattutto di Don Dino Torreggiani, prete dei carcerati, degli zingari, che riempì il mio impegno nell’azione cattolica dei contenuti sempre vitali della liturgia da un lato, e dall’altro di una tradizione amorosa e fattiva agli umili, agli emarginati, ai nomadi; e forse mi si è attaccato un po’ il male del nomade – che non contraddice con la mia stabilità a Bologna.
Del periodo della Resistenza ricordo per un’intimità più costante il medico scalzo Pasquale Marconi e l’indimenticabile Elio vicecomandante della nostra brigata, ferito a morte dai mongoli inquadrati dalle Brigate Nere il giorno di Pasqua del 1945. Poi è venuta una certa (…) con la Consulta e gli organi centrali della Democrazia Cristiana, con la fiducia in bianco di Alcide De Gasperi, di aprir adito mentre era uno sconosciuto per tanti e anche per lui. Fiducia suffragata solo più tardi da tanta umile gente emiliana e un po’ di tutt’Italia.
Ma certo, di tutta quella fase della mia vita, tra il 1945 e il 1952 mi è particolarmente impresso il ricordo della Costituente, soprattutto del lavoro svolto per oltre un anno nella prima sottocommissione, nella quale mi soccorse quasi tutti i giorni la collaborazione costruttiva con l’intelligenza acuta e pensosa di Aldo Moro e il confronto con Lelio Basso, e soprattutto con Palmiro Togliatti, che pur nella netta diversità della concezione generale antropologica e quindi politica, molto mi arricchì con la sua vasta esperienza storica e con la sua passione per un rinnovamento reale del nostro paese rispetto alla situazione pre-fascista, sia pure a-governata.
Di quel periodo – come di prima, negli anni della guerra, e di poi, negli anni seguenti sino alla fine della sua vita, dieci anni or sono – è incalcolabile quello che debbo alla fraternità a all’inesausta capacità di speranze e di amore di Giorgio La Pira al suo fascino di purezza e di contemplazione.
Nella mia vicenda, più propriamente ecclesiale e dolce e commossa, la memoria dell’arcivescovo cardinale Giacomo Lercaro [momento di commozione, applausi] la cui nomina alla sede di San Petronio nel 1952 fu la ragione propria dell’immediato trasferimento a Bologna e alla cui paternità debbo i doni più grandi, cioè debbo l’esperienza di una stagione ecclesiale animata e palpitante, la nascita della Famiglia Spirituale  avvalorata di nuovo da mia madre, il sacerdozio e la partecipazione al Concilio e al post-concilio. Ma sovrastante a tutto, questa sera, è la venerazione grata per Papa Giovanni, che è stato padre e maestro, non di una generazione soltanto, né soltanto entro il campo visibile della Chiesa cattolica. Credo che egli abbia partecipato, qualche scintilla della sua anima, non solo del suo grande cuore  – come qualcuno penserebbe in senso riduttivo, ma anche della sua intelligenza profetica e della sua deliberazione magnanima a più generazioni e anche fuori del cattolicesimo e del cristianesimo.
In fondo, se questa stessa riunione è stata possibile, dobbiamo soprattutto a lui. In suo nome nelle vie che egli ha indicato per la Chiesa – si intende nella continuità dell’unica Chiesa, e per l’impegno che noi tutti qui, pur nelle distinte posizioni e nelle vicendevoli, rispettose chiarezze senza compromessi e senza convenzionalità, ci possiamo incontrare e possiamo riconoscere valido il nostro dialogo e fruttuoso il confronto delle rispettive istanze, fossero anche istanze in parte ancora insoddisfatte.
Mi lasciate rileggere alcune righe del suo discorso inaugurale del Concilio Vaticano II, quel grande evento che il recente Sinodo dei vescovi ha qualificato come la più importante grazia fatta alla Chiesa, e io direi al mondo nel secolo XX.
Papa Giovanni aveva parlato nel primo annuncio il 25 gennaio 1959, della sua idea di un Concilio come di un’umile risolutezza di proposito. All’apertura l’11 ottobre 1962 riaffermava la sua umile personale testimonianza. Vedete, l’accento sempre posto sull’umile risolutezza, sull’umile testimonianza che esclude ogni avventatezza ed ogni superficialità; e spiegava quel primo e improvviso fiorire  nel nostro cuore e nelle nostre labbra della semplice parola Concilio ecumenico, fu un tocco inatteso, uno sprazzo di superna luce , una grande soavità negli occhi e nel cuore.
Ora, è con il desiderio di questa umile risolutezza, tenendomi, ritenendomi debitore di tutto a tutti che vorrei accennare, solo accennare, per i titoli, non sviluppando, non argomentando alcune fra le tante conclusioni della mia personale vicenda di cristiano e di uomo.
Pongo tutte queste conclusioni sotto una comune chiave di lettura, che non è certo quella di un ottimismo alla Rousseau, né di un certo pessimismo preconcetto e neppure di un confronto fra età, per esempio fra le età di chi mi ha preceduto e la mia età o quella di chi mi seguirà immediatamente. Mi servo per questo di una frase della Bibbia nel libro del Qoelet:  “Non domandare: ‘Come mai i tempi antichi erano migliori del presente?’ Questa domanda non è ispirata a saggezza”.
Una prima conclusione posso esprimerla con un episodio riportato da Martin Buber nel suo libro “Racconti di Chassidim”, un libro che tengo spesso fra le mani, anche se in tutto non filologicamente attendibile, perché dà una comune… comunque un’idea di quelle fervorose comunità ebraiche dell’Europa orientale, della Galizia, della Podolia, della Bolivia, dell’Ucraina; oggi annientate comunità… oggi annientate di cui si ritrova la toponomastica nella storia dell’Olocausto. Si vede il libro di Léon Poliakov sullo sterminio degli ebrei da parte del Terzo Reich. L’episodio è questo: Rabbi Bar di Radoschitz pregò un giorno il rabbi Giacobbe Isacco di Lublino, suo maestro:  “Indicatemi una via universale al servizio di Dio”. Rabbi Giacobbe Isacco rispose: “Non si deve dire agli uomini quale via devono percorrere perché c’è una via in cui si serve Dio con lo studio e un’altra con la preghiera, una col digiuno e un’altra mangiando. Ognuno deve guardare su quale via lo spinge il cuore e poi quella scegliere con tutte le sue forze”.
Da questo testo e da tanti altri  nello stesso senso, si potrebbero citare un po’ da varie fonti, ricavo più di una conseguenza.
Anzitutto escludo ogni pretesa che la via da me seguita, e in particolare quella che seguo da trent’anni, sia l’unica forma di servizio divino e di interpretazione del cristianesimo. Anzi, mi piace proporla solo come una delle tante possibili, e particolarmente ho sempre voluto rassicurare tanti amici che servivano il bene comune nella politica o nella ricerca scientifica, o che servono nella Chiesa in altri campi e con altre modalità, a continuare con decisione e senza tentennamenti nel loro impegno proprio.
 In secondo luogo, quello che mi sembra precluso da un testo come quello citato è il concepire la vita come una raccolta di esperienze, esperienze personali o sociali o anche esperienze spirituali. C’è il grande rischio di fare del dilettantismo, del turismo spirituale, cioè di restare sempre in un celibato timido ed egoista, comunque sempre sterile. A un certo punto bisogna porre fine alle esperienze, scegliere e sposarsi con una decisione forte e definitiva.
 In terzo luogo, e ancor più a fondo, il valore della massima sta proprio nell’ultimo enunciato: scegliere una via con tutte le proprie forze. Qualunque sia la via scelta, se ad essa ci si attiene e con perseveranza e con tutte le proprie forze, cioè con un’umile risolutezza – direbbe Papa Giovanni, essa non può non aprirsi verso l’alto, cioè verso Dio. E allora, da qualunque punto si sia partiti, si arriva a quel che diceva già l’Antico Testamento: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze”. Appunto, con tutte le tue forze, come ripete Gesù proclamando: “Questo è il più grande e il primo comandamento”. Implicante il secondo, simile al primo, cioè: “Amerai il prossimo tuo come te stesso”.
Se c’è questa umile e totale generosità nell’impegno e nel servizio, qualunque sia la via scelta non si può non arrivare alla scoperta, o meglio, alla rivelazione ultima, quella per cui Gesù stesso diceva: “Ti benedico Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli”. Cioè, ci sarà rivelato, io lo spero per tutti. Non solo che Dio è la Verità Assoluta, ma che Dio è l’amore e che come dice la prima lettera di San Giovanni: “In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi. Dio ha mandato il suo figlio unigenito nel mondo perché avessimo la vita per mezzo di lui”. Cioè, al termine di ogni via, se seguita, ripeto, con umiltà e con spendita incondizionata di se stessi, c’è la scoperta dell’amore del Padre per noi in Cristo. C’è un unico e definitivo mistero, il mistero di Gesù di Nazareth, figlio di Dio e figlio di Maria, che con la sua croce e la sua morte volontaria  gloriosa e vivificante, è divenuto il primogenito dei morti e ha aperto per noi la via della resurrezione.
Questo mistero non può essere avvicinato con la mente soltanto, ma con tutto l’essere, perché investe tutto l’essere nostro, con assalti impetuosi nelle sofferenze e nelle prove, con carezze nelle consolazioni, con amorosi sguardi, con segni e sussurri dello spirito di Dio in noi, che vanno al di là di ogni parola, come appunto diceva al principio del II secolo Ignazio di Antiochia nella sua lettera ai cristiani di Roma, mentre li pregava di non interporsi per evitargli il martirio, testimoniava a se stesso: “Non c’è in me fuoco che ama la materia ma un’acqua viva che mormora in me e mi dice nell’intimo: ‘Vieni al Padre’ ”.
Una seconda conclusione cui mi pare di essere pervenuto riguarda la disciplina alla quale mi sono dedicato e che ho insegnato. Nella sempre cara Università di Modena fra colleghi amatissimi e allievi numerosi e tuttora memori. Disciplina a cui non mi applico da decenni ma che continuo a coltivare nel cuore in una meditazione esistenziale, per così dire, sui massimi sistemi; cioè lo Stato e la Chiesa, la società civile e politica e la comunione ecclesiale. Entrambe non possono non coinvolgere ogni uomo , anche il monco del deserto è coinvolto inevitabilmente dall’uno e dall’altro.
In uno degli ultimi anni del mio insegnamento tenni la prolusione in apertura dell’anno accademico e parlai della grandezza e miseria del diritto della chiesa sull’onda di un pensiero di Pascal, nel senso cioè in cui egli parla della grandezza e miseria dell’uomo. Egli scrive tra l’altro: “Quanta più luce si possiede tanto più si scoprono nell’uomo grandezza e miseria. La grandezza dell’uomo sta in questo, che esso ha la coscienza della propria miseria. Conoscere di essere miserabili è quindi un segno di miseria, ma in pari tempo un segno di grandezza”.
Così in particolare è la mia conclusione sul diritto della Chiesa; potrei anche dire, forse, di ogni diritto, specialmente nella società post-industriale,  ma per il diritto della Chiesa è ancora più vero, mi pare, almeno.
La grandezza del diritto canonico può stare solo in questo: che riconosca i suoi limiti, rinunzia ad ogni pretesa ultra vires, allo stesso uso avanzato e improprio come otto secoli fa delle categorie romanistiche, così oggi della dogmatica giuridica contemporanea  o delle categorie sociologiche più correnti. Cioè occorre, mi pare, che il diritto della Chiesa si confessi ancor più di ogni altro diritto, sproporzionato al suo oggetto, incapace sempre di adeguarsi quanto più la realtà che vuole disciplinare sia fina e in una società pluralistica e complessa si fa e si deve fare sempre più viva e più propriamente spirituale; tutt’altra cosa dalla cosiddetta societas perfecta, almeno in una certa accezione di un passato anche recente e perciò veramente irriducibile ad odiarla.
Mi sembra che il nuovo codice di diritto canonico ne sia una prova ulteriore; trovo nella costituzione “Sacrae Disciplinae Leges” con cui Giovanni Paolo II l’ha promulgata, l’affermazione che il nuovo codice è un grande tentativo di tradurre in termini canonistici l’ecclesiologia di comunione caratteristica del Vaticano II e insieme, d’altro asserto, che è impossibile tradurre perfettamente in linguaggio canonistico questa ecclesiologia conciliare che deve essere del codice l’esemplare primario.
E il diritto dello Stato in materia ecclesiastica? Sono ormai passati quarant’anni dalla Costituente; tutti, e anch’io, secondo un auspicio che avevo espresso in un rapporto del 1955, quindi sette anni dopo,abbiamo salutato con soddisfazione il superamento del concordato del 1929.
Nel tramonto di questo diventano sempre più importanti,come si prevedeva e si sperava, le norme veramente basali e dinamiche dell’articolo 8 della Costituzione sulla libertà e l’eguaglianza giuridica delle diverse comunità religiose. Esse, in parallelo ai decreti conciliari sull’ ecumenismo e sulla libertà religiosa, hanno ancora a mio avviso grandi virtualità da esprimere, sia per la Chiesa sia per lo Stato, ed è ancora impensabile… è ancora pensabile un’evoluzione ulteriore del nostro diritto statale sul fenomeno religioso  nelle sue espressioni associative, assistenziali, scolastiche, familiari. Evoluzioneche si faccia – come l’oggetto per sua natura esige – sempre meno privilegiaria, in senso positivo o negativo, meno politica, sempre meno corporativa e invece si faccia sempre più spiritualmente originale e originaria nel senso di sempre più rispettosa dell’uomo, dei suoi valori più alti, che non è lo Stato a fondare ma che lo Stato può solo riconoscere.
Una terza conclusione; scusate, non sono breve, l’avevo già detto al Sindaco, mi ha assolto in anticipo. Psicologicamente non mi pare di avere patito delusioni di nessuna sorta, ho saputo le sconfitte, questo è chiaro, Bologna lo sa, ma… Sconfitte che poi forse sono state anche in un certo modo delle mezze vittorie. Forse è una consolazione che mi do, ma me la sono sempre data. Comunque certo non è stato quello. Ho sempre pensato che tutto mi sia stato ripagato, oltre i miei meriti e i miei sforzi.
Considero tutti gli anni antecedenti e tutti gli impegni relativi come anni preziosi, ricchi di doni e di frutti; non rinnego nulla, ma di tutto ringrazio Dio come di una preparazione provvidenziale ed efficace che poteva e doveva avere uno sviluppo coerente e maturo, nella vita che con serena e molto consapevole deliberazione, ho deciso di vivere. Non abdicando, ma ricapitolando e dando un significato ulteriore in essa, a tutte le precedenti tappe della mia esistenza.
Mi si dirà: se non è stata soggettivamente una fuga,perche lei si è consolato, anche delle sconfitte, tuttavia resta obiettivamente uno strappo, una rinuncia, una separazione, o forse una pretesa di raggiungere da solo o con pochi una propria purezza. L’obiezione ha già avuto molte formulazioni e motivazioni; da quella di Libanio, un retore pagano che scriveva contro i primi monaci, a Lutero che condannava il monachesimo oltre che per ragioni varie, per la pretesa di salvarsi, che il monachesimo avrebbe, i monaci avrebbero con le proprie opere e non con la sola fede in Cristo; a quella per esempio di Leone Tolstoj che nei diari il 22 aprile 1889 scriveva: “Non è possibile purificarsi da solo o da soli, purificarsi sì, ma insieme; separarsi per non sporcarsi è la sporcizia più grande”. Il che può essere vero. Anzi, si può convenire che chi si facesse monaco per questo, sarebbe in partenza un monaco fallito. Perché al contrario, il vero monaco, è tale, e lo diventa sempre più, quanto più sente in sé e su di sé l’impurità e il peccato proprio e di tutto il mondo; in una solidarietà sempre sofferta e sempre ricomposta, momento per momento, e unicamente nella fiducia nella pura misericordia di Dio che solo purifica e giustifica, e salva tutti gli uomini. Il santo e il peccatore, che ugualmente e umilmente si rivolgono a lui.
Un mio amico, Luigi Lombardi Vallauri, professore di filosofia del diritto all’Università di Firenze, in una relazione a un convegno internazionale di filosofia sul tema generale “ Temporalità ed alienazione” ha studiato i voti monastici, propriamente del monaco, distinguendolo anche dal religioso, in genere dal sacerdote cosiddetto, impropriamente molto, secolare; e li ha studiati non teologicamente ma filosoficamente in ambito planetario e in tutte le grandi religioni, e ha creduto di dimostrare che i voti monastici portano a una percezione del tempo diversa, tutt’altra che quella mondana, e che essa è una percezione non allineata, ma autentica in sede ontologica, dialogica, etica e noetica o coscienziale. Rinvio a quel saggio di cui io stesso sto curando la ristampa.
In ogni caso io dico, che la decisione del monaco, quella secondo la sua essenza, non è propriamente una fuga da qualche cosa, non è solo una decisione sua, anche se certamente lo è, e per sua natura definitiva, ma è risposta ad una chiamata e adesione positiva a qualche cosa, o meglio a qualcuno. Se non vi annoio troppo vorrei leggervi alcuni versi della più grande mistica mussulmana Rabi’a nata in Iraq nel secolo VIII. Rabi’a è stata denominata la madre del sufismo, cioè della linea mistica più radicale dell’Islam, sino ad arrivare per successive scoperte, appunto come dicevo nella prima parte, a dire a chi richiedeva: ”In che modo ami il profeta Maometto?  Lo amo di amore grande ma l’ amore per il creatore mi ha distolto dall’amore per le creature; anche Maometto”. Ebbene, giocando sul suo nome che in arabo significa quarta, così cantava:
La mia coppa, il mio vino, il mio commensale, Dio, tre.
E io desiderosa dell’amore: quarta.
Colui che mesce il vino a intervalli,
passa la coppa della gioia e della grazia.
Se guardo non è che a Lui.
Se sono presente è soltanto con Lui.
O mio censore, io amo la sua bellezza.
Per Iddio le mie orecchie non ascoltano il tuo biasimo.

Ma  anche per chi, come per me, certo, non può dare la risposta di Rabi’a, è ben lontano da questi vertici del puro amore, la vita monastica è per eccellenza, proprio perché distaccata da ogni curiosità verso il transeunte, verso la cronaca, verso gli avvenimenti quotidiani, e dico:  sempre comunione non solo con l’eterno, ma con tutta la storia, quella vera, non curiosa, che non si frantuma nella cronaca e nel quotidiano; la storia della salvezza di tutti gli uomini, e soprattutto la storia degli umili, dei poveri, dei piccoli, di coloro che non hanno creatività o sono impediti dall’esplicarla e sono certo la maggior parte degli uomini, che sono l’essenza storica. E quindi anche comunione con quelli che non si vedono, che non si conoscono, che non si qualificano, ma veramente con tutti gli ignoti, i morenti, i morti che sono al di la di ogni qualifica, come i morti di Monte Sole.
È comunione che porta a cercare anche l’esilio in terre e popoli stranieri, non con la pretesa di portare qualche cosa, se non la silenziosa testimonianza di un amore gratuito che non chiede ricambi; e tantomeno di ricavarne esperienze esotiche, ma con il desiderio soltanto della condivisione con lontani ed estranei e quindi con quello che il Padre chiamava il desiderio della xenitìa, cioè appunto dell’essere straniero e ignorato e comunque sempre in una condizione di inferiorità; in definitiva di essere privo di ogni valenza, di essere contato per nulla.
E tuttavia, cioè nonostante tutto questo che ora ho appena detto, credo al contributo possibile, anche storico, in un certo senso politico, di questo tipo di vita; essa ha una rilevanza possibile per la Polis, per la città, tanto più grande, quanto meno cercata nelle intenzioni.
E’ questa l’ultima conclusione che vi volevo sottoporre per fugaci accenni:questa vita che vivo, quanto più è vissuta senza intenzioni seconde, quanto più sia e si proponga genuinamente di essere inutile, tanto più può  ricevere da  Dio un valore aggiunto verificando anche in questo il discorso della montagna quando dice: “cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta”.
 Per esempio: il voto di castità. Qualunque idea ciascuno di voi si faccia della sessualità, credo di potere in questa sede affermare almeno questo: che la castità vera ed integra del corpo, del cuore, dello spirito è un’ altra ipotesi possibile e che c’è dopotutto un’altra faccia della luna. Quindi ha qualche cosa da dire e da dare a questo nostro mondo e alla Polis odierna con i suoi divorzi, con il suo libero amore e il suo libero piacere, le sue multiformi infecondità. Che cosa dà? All’esperienza coniugale può venire da essa per lo meno un incoraggiamento a pazientare con speranza, per lo meno.
Nel libro di Buber che ho prima citato, è narrato un episodio di Abi Sussia di Anipol; dice così: “La moglie di Sussia  era una donna litigiosa e lo sollecitava continuamente a divorziare da lei; -come tutti sanno la legislazione mosaica permette il divorzio- e le sue parole gli contristavano il cuore. Una notte egli la chiamò e le disse: ‘guarda’, e gli mostrò che il suo guanciale era tutto umido, poi proseguì dicendo: ‘E’ scritto nella Ghemarà – una delle fonti del Talmud – chi scaccia la sua prima moglie l’altare -cioè Dio- stesso, piange su di lui. Di tali lacrime è inzuppato questo guanciale. ‘Ed ora vuoi ancora la lettera di ripudio?’ Da quel momento ella diventò silenziosa e quando fu diventata silenziosa, diventò lieta, e quando fu diventata lieta, divenne buona”.
 Anche la castità monastica non è pacifica, può essere litigiosa; il monaco non è un asessuato, come tutti ben sanno, fin dalla storia del patriarca dei monaci cristiani Antonio e delle sue lotte terribili in questa materia. Il monaco vive nella battaglia spesso per anni interminabili, deve armarsi di fortezza e di pazienza, di umiltà e di fiducia in Dio.
A Silvano del monte Athos, un monaco russo morto in questo secolo, nel ’38, fu detto: “Vivi consapevolmente dell’inferno e non disperare”.
Ma una parola può essere detta anche all’amore sistematicamente dissociato dalla fecondità, specialmente quando la dissociazione non avviene prima, ma quel che è incomparabilmente più grave, dopo che una fecondazione è già avvenuta. A parte le preoccupazioni che molti sociologi cominciano ad esprimere sull’avvenire di una società di anziani, anche qui, è un’altra ipotesi. Tutta diversa da quella oggi divulgata; cioè l’intuizione che l’amore è più pienamente amore quando è fecondo e una nuova creatura che ne è il frutto benedice e lode il Creatore.
Il monaco sa questo sperimentalmente, cioè nella sua esperienza, che tende appunto ad una fecondità spirituale che tende nel suo modo proprio a crescere e a moltiplicarsi, perché aumentino coloro che si uniscono a cantare in coro con lui la lode del Signore.
Mi piace anche per questo ricorrere alle fonti rabbiniche, questa volta al Talmud direttamente. A proposito del passato del Mar Rosso la parte degli ebrei nel loro esodo dall’Egitto e del Cantico di Mosè in quella circostanza, il Talmud palestinese dice:  “Quando i nostri padri giunsero al mare, il piccino era portato sulle ginocchia della madre e il lattante succhiava le mammelle della madre. Ma quando videro la dimora, cioè la gloria di Dio nella colonna di fuoco, il piccino alzò il capo dalle ginocchia della madre e il lattante tolse la bocca dal seno della madre e aprirono le loro bocche nel canto della lode”. E Rabbi Gamaliele dice: “Anche gli embrioni, dal seno delle loro madri dicevano il cantico, come sta scritto nelle assemblee ‘benedite Iddio, il Signore dalla fonte di Israele, fonte di Israele sono le madri , quindi nel seno delle madri benedite il Signore’“. Sin qui la citazione.
Anche l’embrione. Tanto è radicata e conseguente al monoteismo biblico la convinzione che l’embrione sia senza distinzioni una creatura di Dio che può, e perciò ha il diritto di giungere alla conoscenza e alla lode del suo creatore.
Questa convinzione apparirà a molti arbitraria, ma non lo è certo per chi ha un amore così esclusivo per il Dio unico e vero, da lasciare per esso persino le espressioni più complete ed appaganti dell’amore umano. L’esperienza affina lo sguardo e fa intuire il collegamento in virtù di una conoscenza non nozionale e dimostrativa, ma che San Tommaso chiamerebbe conoscenza per connaturalità e che qualcuno oggi preferisce chiamare conoscenza per realizzazione.
E in questo, appunto, sta una testimonianza, anche se di una piccola frazione, che può tuttavia avere il suo giusto rilievo nel coro della città.
Altrettanto mi verrebbe da dire per la povertà, per l’ubbidienza del monaco, per lo stesso lavoro monastico. Anch’essi possono proporre un’ipotesi complementare o meglio compensativa di fronte all’affermarsi di una società opulenta ed esaltante la potenza, e tesa troppo, troppo, alla conquista ad ogni costo. La reazione a questo tipo di società opulenta  e ancora abituata al dominio e al comando, quale quella del tardo Impero dopo la pace costantiniana, fu una delle tante ragioni della fioritura del monachesimo nel IV secolo in Egitto, in Palestina e in Siria e poi in tutto l’occidente.
Salto un poco perché vedo che ormai è tardi. Ma ancora però, devo trattenervi su qualche cosa, sempre nel quadro di questa quarta conclusione.
Potrebbe rientrare in questo quadro complessivo, anche se non ho la pretesa di evidenziare qui le connessioni, una considerazione degli sforzi che si fanno in tutto il mondo, ma ancora quanto pochi e quanto malsicuri e contraddittori per la modificazione della condizione femminile in ogni area culturale. Vorrei solo dire che è questo uno dei grandi problemi sui quali mi sembra di dovere meditare di più, sempre di più. Per la gratitudine illimitata che debbo a mia madre e per la comprensione acquisita per merito di quante mi sono state vicine in tanti anni e  hanno   condiviso con me impegni e speranze.
Purtroppo temo che dai movimenti femministi delle società avanzate come da certi tentativi teologici ed esegetici, o da rivendicazioni di religiose dello stesso ambito ecclesiastico, non si sia ancora colto nel segno. Credo che si debba ripartire più a livello meno esteriore e ancora più profondo.
Notazioni interessanti e non ovvie sono state proposte proprio nel recente convegno di Palazzo d’Accursio sulla intolleranza da parte di Biancamaria Scarcia Amoretti, a proposito della condizione femminile nell’Islam; e aggiungerei che l’inferiorità della donna musulmana, che nelle interpretazioni anche peggiori è sempre però un’inferiorità solo sociale, non è per nulla paragonabile all’inferiorità, non solo sociale ma propriamente di carattere metafisico, che si trova nell’induismo paramanico e anche a mio avviso, per esperienza diretta, nel nuovo induismo contemporaneo, nonostante certi adattamenti superficiali.
Questa inferiorità della donna è postulata dal pilastro sempre fondamentale, nell’Induismo e nel Buddhismo, della dottrina delle reincarnazioni; la stessa dottrina che fonda ancora la permanenza e il vigore che in tutta l’India delle divisioni castali nonostante l’abolizione formale da parte della Costituzione indiana delle caste. Comunque siano, o si vogliano vedere, le cose per queste aree culturali, penso che per tutte, anche per l’area cosiddetta occidentale e per quella africana, si debba riproporre il problema daccapo, e che pure a questo fine il monachesimo femminile della Chiesa d’Occidente, come nella Chiesa d’Oriente, penso proprio in questo momento al monachesimo ortodosso della Grecia e della Romania.
Forse pochi sanno che nella […] di oggi sono fiorenti i monasteri di centinaia di monache, e proprio una di queste ha tenuto il discorso forse più applaudito nella recente, ormai una assemblea generale mondiale a Nairobi, del Consiglio ecumenico delle Chiese.
 Comunque, penso che il monachesimo femminile della Chiesa d’Occidente e della Chiesa d’Oriente abbia qualche cosa di valido e di inedito da dire, nonostante, si capisce, le varie monache di Monza e i numerosi fallimenti che nella storia del Medioevo o dell’età moderna, o ancora oggi, si sono potuti registrare.
Ormai sto per finire davvero.
Mi resta solo da accennare all’aspetto più difficile della vita del monaco e proprio a questo aspetto ne è poi lo scopo assoluto, cioè la carità, l’amore verso Dio e verso il fratello che ci vive accanto con i suoi gusti, con le sue movenze, persino con le sue preferenze spirituali opposte alle nostre. Nell’ambiente ristretto del cenobio e nel consorzio totale di vita che esso implica, in ogni aspetto e modalità, dalla liturgia al lavoro, dallo stare a tavola insieme al riposo, non è possibile evadere, ignorarsi, distrarsi. Ciò richiede una lotta incessante, una vigilanza estrema, un superamento continuo delle proprie preferenze più elementari e un esercizio di sottomissione all’altro che non si può mai dare per acquisito.
Già il padre del monachesimo cristiano Antonio aveva detto: “E’ dal prossimo che ci vengono la vita e la morte, perché se guadagniamo il fratello è Dio che guadagniamo, se scandalizziamo il fratello è contro Cristo che pecchiamo”. Perciò nel cenobio la tensione alla carità e alla pace, sta a indicare senza pause e senza sconti la riuscita o il fallimento senza appello di tutta una vita. I Padri del deserto lo sapevano e lo insegnavano con le parole e con gli esempi.
Il Padre Agatone disse: “ non mi sono mai addormentato avendo rancore contro qualcuno e per quanto mi era possibile non ho permesso che qualcuno si addormentasse avendo rancore contro di me”. Il Padre Poemen disse: “Non è possibile avere amore più grande di questo, che qualcuno ponga la sua anima per il suo prossimo; e se qualcuno sente una parola cattiva che lo affligge, e pur potendo rispondere con una parola simile lotta per non dirla, oppure se trattato con arroganza sopporta e non ricambia, questi pone l’anima per il suo prossimo”.
Come non pensare a tante ovvie applicazioni, in sedi diverse, in cerchi sempre più ampi?
Il monastero in questo è veramente un microcosmo, e se volete un laboratorio in cui si possano fare in scala ridotta esperimenti, che io penso, trasferibili in scale progressivamente più ampie.
E’ qui soprattutto che si dimostra la solidarietà del monaco con i problemi più universali e più travaglianti ogni età. Il monaco non può mai abdicare alla milizia incessante per l’amore verso il fratello, tanto più se pensa che nel suo cuore possano aggravarsi o attenuarsi  le contese e i contrasti che lasciano nel mondo intero, a seconda della soluzione che egli dà al piccolo conflitto domestico.
Questo è un capitolo, forse, in gran parte ancora da scrivere, di quella educazione alla pace che da tante parti si auspica e si teorizza e si vorrebbe praticata.
I grandi conflitti che travagliano l’intero pianeta dal Centro, al Sud America, al Sud Africa, dall’Afganistan all’Eritrea, dal Sud-Est Asiatico; si riflettono in ogni istante nella mia coscienza che può essere divisa dal fratello nella mia stessa piccola comunità. E mi impongo una continua risposta positiva, un continuo superamento del mio egoismo che non vuole morire, e che pur sa ormai molto bene che in quest’estrema frontiera interiore, si gioca la riuscita e il fallimento della mia vita avanti a Cristo, e si gioca ad un tempo il mio reale contributo positivo o negativo alla salvezza storica del mondo, minacciato di distruzione totale nell’era atomica in cui  viviamo.
Quando poi per giunta il mio Cenobio è anche materialmente collocato su una frontiera contesa e su uno dei punti più caldi del pianeta, come lo è di fatto, per me, per noi, a Gerusalemme e in Giordania, allora la coscienza di questa solidarietà fra il piccolissimo e l’universale diventa, o dovrebbe diventare,  ancora più acuta e tradursi continuamente in una auspicio e in un impegno che per essere silenzioso e interiore non dovrebbe essere meno categorico e continuo.
Tanto più se non solo intorno a me, o intorno a noi, c’è sempre qualcuno che ci interpella in un senso o in un altro, ma se dentro di me, nella mia stessa coscienza si urtano ragioni ideali opposte, che mi fanno vivere dal di dentro tutto il conflitto che mi preme addosso dall’esterno.
Da un lato, ahimè, nel caso, l’intera frontiera in cui ci troviamo, è in me la memoria indelebile dell’Olocausto ebraico e un’apertura e una sensibilità consonanti con la grande tradizione dell’Israele eterno, l’ Israele spirituale, che ritengo ancora necessario al Cristianesimo e alla Chiesa per auto-comprendersi e per vivere con totale coerenza e fedeltà la propria missione in noi.
Dall’altro è la lucida e aperta consapevolezza che il mondo intero, specialmente il nostro mondo occidentale, forse prima, e più ancora che lo stesso stato di Israele, ha commesso e continua a commettere nei confronti degli arabi-palestinesi un’enorme ingiustizia qualunque sia il loro errore o la loro colpa; e che la pace, nello stesso interesse dello stato di Israele, non potrà esservi senza una riparazione effettiva delle ingiustizie consumate e senza la restituzione di una parte dei territori ad un popolo conculcato e da tutti i lati spinto alla disperazione.
Lascio giudicare a ciascuno di voi se simili trasposizioni, se questi miei passaggi, dalla coscienza personale e dall’esperienza di una piccola comunità riportate a scale più vaste della problematica civile o internazionale, siano possibili, legittime e dotate almeno indirettamente di una qualche , autentica efficacia.

Nessun commento:

Posta un commento