ITALIA, PENISOLA SENZA MARE
Carta di Laura Canali
Dotato dalla natura di strategica posizione nel Mediterraneo, il nostro paese, imperniato sul Nord, stregato dal Reno e dalla Mitteleuropa, non sa che farsene. Perché Londra ci volle sotto Torino, non Napoli. L’idealtipo americano della talassocrazia.
Naturale è quindi per l’Italia
la possibilità, e naturale il sogno,
di dominare il mare in tutta
la sua estensione.
Fernand Braudel
E i fiumi, falsi avventurieri
che trasformano
i padani in marinai non veri.
Francesco Guccini
1. È la principale tragedia del nostro paese. Essere penisola senza pensarsi sul mare. Contraddizione patologica, crisi d’identità ai limiti dell’impazzimento, falla esiziale nella nostra (sbilenca) traiettoria. Pure esistenti nel cuore del Mediterraneo, gli italiani non guardano il mondo dalle coste, non mantengono gli occhi sulle onde.
Vivono nel terrore dell’Oltreterra. Convinti che il proprio baricentro strategico si collochi nel continente europeo, aggrappato alle collettività settentrionali, lontano dal mare, portatore di disgrazie e sciagure. Anziché dominare il bacino in cui sono immersi, si augurano di non finirvi dentro – se non per balneazione estiva. Senza accorgersi che tanta mancanza ne umilia la potenza, privandola del suo habitat.
A determinare tale negazione di sé fattori di natura storica, strategica, geopolitica, demografica. L’Italia unita fu pensata dai piemontesi, assai a disagio sui marosi, benedetta dagli inglesi, preoccupati dalla vocazione navale delle Due Sicilie, occupata dagli americani, contrari al suo sviluppo concretamente talassocratico.
Tuttora nel Belpaese il modello culturale dominante pertiene a regioni settentrionali prive di sbocchi al mare, informate da un’inevitabile aspirazione terragna, fiaccate da un atavico complesso di inferiorità verso la Mitteleuropa, dalla bizzarra voglia di sciogliersi in un contesto ritenuto superiore, indifferenti al Mezzogiorno marittimo.
Così la propaganda europeista ha diretto lo sguardo della nazione verso il Reno, nucleo di uno spazio antimediterraneo, ha accresciuto il diffuso orrore per il Levante e per il Maghreb, quadranti da obliare senza rimorsi.
Il divieto di frequentare la strategia imposto dall’egemone statunitense ha reso sconosciuto lo strumento marinaro, ha stemperato il beneficio di esistere tra Tirreno e Adriatico/Ionio. Mentre l’età avanzata produce una popolazione fisiologicamente timorosa, distante dall’ethos navale, la più insidiosa delle dimensioni militari, perché maggiormente incline a incidenti con potenze ostili.
Condizione artificiale che ci mantiene irrilevanti nel continente e secondari nel mare nostro, laddove perfino turchi e russi si stanziano su quella che fu la Quarta Sponda.
Congiuntura dolorosa, rovesciabile attraverso un profondo mutamento antropologico, pressoché impossibile da centrare nel nostro tempo.
2. La talassocrazia è disposizione umana, precedente lo sviluppo della navigazione. È volontà di affidare al mare il proprio destino, di giocarsi la potenza sulle onde. È identità che si fa traversata, coincidente con la sola catabasi. Ben oltre la costruzione della Marina militare.
Nel corso dei millenni l’Italia è stata culla di numerose nazioni marittime. Roma fu superpotenza navale per almeno quattro secoli, quando stabilì la prima globalizzazione (non geografica) della storia, apogeo del (mostruoso) passaggio dalla terra al mare, realizzato da pochissimi popoli 1.
Fu l’Urbe a battezzare nostrum il Mediterraneo, dopo averlo domato nella sua interezza, dopo aver rinnegato la terra per sconfiggere Cartagine, per assurgere a egemone globale. In seguito alla caduta della civiltà semita, i romani divisero il mare in quadranti di competenza per le loro flotte, collocate a Ravenna, a Miseno, in Egitto, in Siria, in Numidia, nel Mar Nero, oltre che nell’Oceano Atlantico, nella Manica, sul Reno, sul Danubio. Divennero «paladini» del commercio internazionale, esclusero dalla navigazione le imbarcazioni nemiche. La Pax Romana fu prodotto di tale superiorità acquatica.
Nel medioevo le repubbliche marinare – Genova, Venezia, Pisa, Amalfi, Ancona, Gaeta, Noli – mantennero lo Stivale nel Mediterraneo, nel suo elemento naturale. Soprattutto Genova e Venezia costituirono luminosi esempi di talassocrazia, padrone di interi arcipelaghi, impegnate a tessere proficue relazioni con le semitiche popolazioni della Penisola iberica e del Nord Africa, con i turchi dell’Asia Minore. Perennemente in lotta tra loro, impegnate nelle attività di porto, use agire lontano dalla terraferma, conservarono una formidabile caratura navale. Finché nel 1797 la sconfitta della Serenissima per mano francese privò il Belpaese dell’ultima collettività d’acqua salata.
La fine della vocazione marittima fu confermata dalla successiva epopea risorgimentale, scaturigine di una nazione irrimediabilmente terragna. Peccato originale dell’Italia unita, tuttora gravante sulla nostra esistenza. A produrre tale risultato il combinato apporto di Piemonte e Gran Bretagna, con tassi diversi di consapevolezza. Soggetto nato a cavallo delle Alpi, dotato di una modesta flotta, il Regno di Sardegna sommava il proprio vivere sulla terra al terrore del mare tipico dell’isola nuragica, storicamente preoccupata dalle razzie di pirati e predoni. Ancora nel 1815 Vittorio Emanuele incaricava il viceammiraglio Giorgio Andrea Agnès des Geneys di costruire una Marina da guerra almeno capace di realizzare lo sbarco a Capraia, isola pressoché disabitata, estesa per neanche venti chilometri quadrati.
Intenzionata a unificare la Penisola, la corona sabauda comprese di non poter sconfiggere la Marina borbonica, superiore alla propria, capace di sventare con facilità lo sbarco dei garibaldini in Sicilia. Per fare l’Italia fu necessario accettare l’interessato sostegno degli inglesi. Nei calcoli di Londra la nascita di un soggetto unitario avrebbe negato alla Francia di conservare la propria influenza sullo Stivale, specie sulla Sicilia. E avrebbe archiviato la proiezione borbonica nel Mediterraneo centrale, cui nel 1800 la flotta d’Oltremanica aveva sottratto Malta, strappandola a Napoleone senza restituirla ai folkloristici cavalieri autoctoni.
Visto dalla Gran Bretagna, il Regno delle Due Sicilie era profondamente infido, dotato di una Marina competitiva, poco disposto ad accettare la volontà della regina Vittoria. In un violento editoriale il Times consigliò Sua Maestà di emulare l’azione del commodoro statunitense Matthew Perry contro lo shogunato nipponico, inviando cannoniere nel Golfo di Napoli per costringere Ferdinando II a riconoscere la superiorità inglese: «Non si può tollerare l’esistenza di un Giappone mediterraneo posto a poche miglia da Malta, non troppo distante da Marsiglia» 2. Per William Gladstone il Regno borbonico era «la negazione di Dio eretta a sistema di governo» 3. Viceversa, il Piemonte rappresentava una Prussia velleitaria, in rotta di collisione con Genova che ne soffriva l’autorità, in imbarazzo sui flutti, perfetto strumento in mani inglesi. Coinvolto da Torino nella spedizione dei Mille, il premier Lord Palmerston si mostrò entusiasta, nella convinzione che i Savoia avrebbero creato uno Stato a loro somiglianza.
Il sostegno militare e finanziario inglese allo sbarco dei garibaldini non può essere sottovalutato. L’11 maggio 1860 fregate di Sua maestà presenti nella rada di Marsala impedirono alla flotta borbonica e a Napoleone III di intervenire contro Garibaldi, coprendo i piroscafi che trasportavano le camicie rosse.
Il 15 ottobre una legione britannica composta da circa 800 tra inglesi e scozzesi sbarcò a Napoli incaricata di «liberare» il Mezzogiorno, con tanto di parata in via Toledo, quindi avanzò al fianco di Garibaldi fino a Vairano.
Al termine delle operazioni Palmerston spiegò all’espatriato italiano Antonio Panizzi, poi direttore della biblioteca del British Museum, che «l’aiuto morale e materiale inglese non fu meno utile delle armi francesi e che sarebbe stata mera ingratitudine per parte dell’Italia lo scordarselo» 4. Conquistata l’unità, la Gran Bretagna si aspettava dal neonato Stato che rimanesse terroso.
Il 12 febbraio 1887 Roma e Londra misero su carta tale proposito, dichiarando di voler «mantenere l’equilibrio mediterraneo e scongiurare ogni cambiamento che, sotto forma di annessione, occupazione, protettorato, modifichi la situazione attuale con detrimento delle due Potenze segnatarie» 5. Affermazione dello status quo che di fatto negava al Regno d’Italia sovversive pretese navali. Subordinazione antimarittima che Roma avrebbe (parzialmente) abbandonato soltanto in epoca fascista, prima di ritrovarla al termine della seconda guerra mondiale. Per iniziativa degli americani, analoga alle manovre inglesi, favorevoli a un potenziamento della flotta italiana ma contrari alla nascita di concorrenti talassocrazie, alla trasformazione demografica che tale metamorfosi richiede. Impossibile da realizzare nello Stivale per estraneità al mare delle dominanti regioni settentrionali.
3. La vocazione di una nazione è informata dai territori prevalenti. Non può essere belligerante, economicistica, violenta o post-storica se questi non vi aderiscono. Per essere talassocrazia la popolazione più influente deve pensare il proprio futuro intrinseco al mare, deve affidare alle onde ogni sforzo materiale e intellettuale.
Atene si fece talassocrazia perché l’oligarchia che la guidava si gettò in acqua alla vista dei medi. Roma realizzò la medesima trasformazione per convinzione delle sue gentes, persuase a rinnegare la terra per vincere i cartaginesi, per brama di potenza. L’Inghilterra dei Tudor si affidò agli oceani dopo che l’aristocrazia londinese abbracciò il progetto di Elisabetta I.
È necessario che il ceppo preminente pensi il mare pure se abitante le regioni continentali – la collocazione geografica deve inchinarsi alla cifra culturale. Ne sono fulgido esempio gli Stati Uniti d’America, massima nazione marittima del nostro tempo. Pure se istruita dagli inglesi alla pratica navale, ancora agli inizi del Novecento la futura superpotenza era meramente terragna.
L’indispensabile passaggio antropologico si verificò quando i germanici del Midwest, prossimi a vestire i mores del paese, accolsero l’impresa marinara. Se ne accorse il segretario alla Marina, Richard Thompson, che alla fine dell’Ottocento pretese di coinvolgere i «teutonici» medio-occidentali, residenti nell’entroterra, laddove gli oceani sono panorama ritratto nelle cartoline 6.
All’inizio del Novecento la U.S. Navy cominciò una scientifica opera di reclutamento tra Ohio e Minnesota, alla ricerca di bravi ragazzi dall’aspetto nordeuropeo che mai avevano visto il mare, eppure assai disciplinati, estranei all’insubordinato atteggiamento dei marinai di origine britannica 7. L’operazione fu un successo. Risposero alla chiamata in centinaia di migliaia, in pochi anni il Midwest divenne il primo fornitore di reclute navali.
Nacquero centri di coscrizione in tutta la regione. «Mamma, mi arruolo in Marina, vado a Des Moines», era una delle frasi più usate dai giovani dell’epoca, in buona parte di origine tedesca o scandinava, a volte irlandesi teutonizzati, radunati nella capitale secca e rurale dell’Iowa. Nel 1904 il presidente Teddy Roosevelt favorì la creazione dell’istallazione navale di Waukegan, sul lago Michigan, incaricata di addestrare i futuri marinai, a mille chilometri dall’oceano. La base si sarebbe rivelata decisiva per la storia degli Stati Uniti. Fino a diventare sede del comando di reclutamento e addestramento della Marina, capacità che conserva da oltre un secolo, senza esistere né sull’Oceano Atlantico né su quello Pacifico, emblema della discesa al mare dei German-Americans.
Ancora oggi ogni recluta riceve il proprio battesimo navale nel Midwest, in ambiente lacustre, nel territorio culturalmente prioritario della nazione. Superiorità dell’ethos sulla tecnica, dimostrazione dell’indispensabile corrispondenza tra la traiettoria della collettività e la sua etnia principale.
Furono originari del Midwest i principali ammiragli statunitensi impiegati nella seconda guerra mondiale. Tra questi: Husband Kimmel da Henderson in Kentucky, presente a Pearl Harbor durante l’attacco giapponese; Isaac Kidd da Cleveland in Ohio, ucciso dai giapponesi alle Hawaii; Frank Jack Fletcher da Marshalltown in Iowa, vittorioso a Midway e Guadalcanal; Marc Mitscher da Hillsboro in Wisconsin, impegnato a Midway; Raymond Spruance da Indianapolis, successore di Chester Nimitz come comandante della Flotta del Pacifico.
La regione produsse anche la più commovente storia marittima del conflitto. Quella dei cinque fratelli Sullivan – George, Frank (Francis), Joe (Joseph), Madison, Al (Albert) – originari di Waterloo in Iowa, arruolati in Marina il 3 gennaio 1942 senza essere mai stati fuori dallo Stato natale. Dapprima assegnati a Des Moines, poi alla base dei Grandi Laghi, quindi imbarcati sull’incrociatore USS Juneau diretto nel Pacifico per partecipare alla battaglia di Guadalcanal. Il 14 novembre il Juneau fu affondato da tre siluri giapponesi davanti all’incrociatore USS Helena comandato dal retroammiraglio Gilbert Hoover (Hüber), nativo di Columbus in Ohio. Frank, Joe e Matt morirono all’istante, Al affogò la mattina successiva, George quattro giorni più tardi, disperso nell’oceano.
La dolorosa vicenda trasmutò in caso nazionale. Il presidente Franklin Roosevelt scrisse di suo pugno una commossa lettera di condoglianze ai genitori, ai cinque fratelli fu dedicato un eponimo cacciatorpediniere. I Sullivan incarnarono la sentimentale partecipazione del superiore entroterra alle vicende marittime. Legame tuttora vivo, con il Midwest secondo bacino della Marina, luogo inaggirabile per ogni americano che punti al mare.
4. Quanto da sempre manca al nostro paese. Qui la classe dirigente settentrionale non s’è mai appassionata al Mediterraneo. Anzi, ha perennemente distillato un modello culturale assai «asciutto». All’indomani dell’Unità, la burocrazia sabauda confermò inerzialmente la preminenza della terra, cui aderì l’altrettanto terragna popolazione lombarda. Cavour assimilò nella Regia Marina mezzi e usanze che furono borbonici, quindi espresse il proposito di costruire una flotta imponente.
Nei decenni successivi il neonato Stato cominciò a investire maggiormente in mezzi navali, fino a compiere nel 1911-12 l’impresa di Libia, sbaragliando i decadenti ottomani, conquistando Tripolitania e Cirenaica. Ma la nostra condizione non fu stravolta.
Il Regno si concentrò sulla fondamentale costruzione di ferrovie anziché su canali fluviali o porti 8 – tantomeno concepì la rinascita di Venezia. La pubblicistica piemontese si arricchì di studi sul valore della difesa alpina o sulla centralità della dorsale appenninica. E la Marina continuò ad accogliere tra le sue file pochi lombardi, nel frattempo assurti ad avanguardia produttiva del paese.
L’avvento del fascismo segnò il passaggio verso un’agognata, ancorché velleitaria, talassocrazia. Il regime riconobbe come massimo obiettivo strategico la conquista del Mediterraneo, richiamandosi posticciamente al passato romano. Mussolini illustrò tale visione già nel 1922. «Soltanto facendo del Mediterraneo il lago nostro, alleandoci con quelli che nel Mediterraneo vivono ed espellendo coloro che del Mediterraneo sono i parassiti, compiendo questa opera dura (…) noi inaugureremo veramente un periodo grandioso della storia italiana» 9, annunciò.
Plateale il riferimento all’Inghilterra, descritta potenza abusiva, dal cui giogo il paese doveva affrancarsi per assegnarsi dignità marittima. Nella retorica Londra fu presto assimilata a Cartagine in qualità di acerrimo nemico. Nel medesimo periodo il regime colse la necessità di centrare la classe dirigente su Roma, capitale parzialmente a suo agio con i flutti, dotandola di una vocazione marittima che fosse tanto figurata quanto materiale. La civiltà latina fu elevata a misura di ogni impresa navale, la dizione mare nostrum pomposamente riabilitata. Il mito dell’Urbe sostituì almeno temporaneamente il canone sabaudo-lombardo, spostando sull’acqua l’orizzonte comune.
Specie negli anni Trenta la Marina si dotò di mezzi notevoli, come gli oltre 100 sommergibili e le corazzate della classe Littorio. Allora fu avviata la costruzione dell’abitato di Ostia, pensato nei primi anni Venti per condurre fisicamente la capitale sulle onde. Dapprima chiamandola Ostia Nuova quindi battezzandola Ostia a mare, indicando con una tautologia il sotteso proposito strategico, collegando l’Urbe alla costa attraverso la monumentale via imperiale, oggi via Cristoforo Colombo.
Durante il Ventennio l’Italia non divenne un soggetto marittimo, ma registrò la sua massima evoluzione navale, per relazione tra i flutti e la narrazione di regime, tra l’improbabile progetto di potenza e la sua declinazione acquatica. La disfatta della seconda guerra mondiale ristabilì la congiuntura ex ante.
Divenuti patron della Repubblica, negli anni Cinquanta gli Stati Uniti accettarono che la nostra Marina si ricostituisse in ambito Nato, senza concederci di manovrarla unilateralmente, tantomeno di renderla innesco di una potenziale talassocrazia.
Il Belpaese ripristinò il primato culturale delle regioni settentrionali, rafforzato dal coevo boom industriale, ulteriore conferma per lo status di avanguardia assegnato a Piemonte e Lombardia. Realtà che tuttora inibisce la nostra aderenza al mare.
5. Il nostro Settentrione guarda a nord. Le regioni intestate della traiettoria produttiva e geopolitica della nazione – Lombardia, Piemonte, perfino Veneto – ignorano il Mediterraneo, anelano l’Europa continentale. L’ortodossia resta di matrice alpina, pedemontana, appassionata degli affluenti e del corso del Po, molto meno del mare. Limite che mortifica la nostra potenza, impedendo l’attuazione della strategia. Impossibile trasformarci in potenza navale se la popolazione più influente si pensa di terra, se guarda solo alle Alpi.
Alle nostre latitudini è diffuso l’incredibile mito della Mitteleuropa. Stando alle parole di Carlo Bonomi, presidente di Confindustria, noi saremmo mitteleuropei 10. La regione centrale del continente improvvisamente trasformata in un concetto neutro, sorta di spazio elitario al quale conviene appartenere per il bene delle manifatture e dei commerci, perché più evoluto del nostro. Quasi Mitteleuropa non fosse un’espressione tedesca (pronuncia: Mitteloiropa), vettore di influenza altrui a lungo subìto da notevoli porzioni del nostro territorio. Utilizzata nel 1915 dal pangermanista Friedrich Naumann per proporre una federazione centro-continentale che unisse il Reich guglielmino all’Austria-Ungheria. Regione non italiana, oltre che mediamente ostile, abitata da popolazioni non marittime.
La soggezione del Settentrione – e non solo – per il Nord Europa ci allontana pericolosamente dal Mediterraneo, dal nostro fisiologico campo d’azione, dal contesto in cui esiste la prima di linea di difesa. Lo sguardo perennemente puntato Oltralpe ci impedisce di cogliere cosa capita Oltremare. Come se gli Stati Uniti sognanti il Canada negassero la preminenza del Golfo del Messico, laddove un potenziale nemico può colpirli al cuore, possibilmente risalendo il Mississippi.
Per cui sulla torinese collina di Superga Umberto I re d’Italia, assassinato nel 1900 dall’anarchico Gaetano Bresci, è raffigurato come un sovrano celtico, con tanto di abiti barbari. A richiamare una discendenza non latina, distante dal mare nostro, pertinente a un favoloso spazio boreale.
Addirittura il Veneto, patria della Serenissima, per secoli massima talassocrazia del pianeta, guarda con orrore a quel Mediterraneo che lo condurrebbe nel Maghreb conflittuale e arretrato, che lo allontanerebbe dalla catena del valore teutonica. Mentre accetta con ostentata indifferenza che Venezia non disponga di un porto di primaria rilevanza. Sul Lago di Garda o sul Lago Maggiore non esiste alcuna base della Marina militare. I marinai non sono avviati alla pratica navale nel profondo Nord. Le reclute della Marina sono per l’80,1% di origine meridionale 11, provenienti dalle regioni meno potenti del paese.
«Manca nella classe dirigente nazionale la consapevolezza del nostro destino marittimo, dell’importanza del mare per la nostra prosperità e sicurezza. (…) Dovremmo conferire la giusta priorità alla questione marittima, interrompendo il declino della flotta, anche in termini di organico» 12, ha rilevato l’ammiraglio Giuseppe De Giorgi, già capo della Marina, segnalando la mancata simbiosi tra onde e cultura comune.
Schizofrenia su cui grava la dannosa diffusione nell’intera popolazione del mito europeista. Propaganda storicamente costruita sul cosiddetto asse renano, continentale patto franco-tedesco, assai distante dal Mediterraneo. Leuropa (senza apostrofo) ha trasferito il nucleo della nostra politica estera a siderale distanza dalla realtà. Ha attirato verso nord anche il Mezzogiorno marittimo, già tendente al Settentrione per ragioni economiche, ulteriormente sedotto dall’aura di progresso a lungo conferita al processo comunitario. Anziché mantenere la duplicità continentale-mediterranea della nostra strategia, tale europeismo di maniera – per l’opinione pubblica italica causa di ogni bene e di ogni male – banalizza la nostra tattica, ci illude che le nazioni «asciutte» vivano meglio perché prive di complicazioni navali.
Imbevuti di un approccio alieno, ci siamo convinti che il Mediterraneo sia mero veicolo di tragedie minimaliste, dallo sbarco dei migranti all’innalzamento delle acque. Non comprendiamo che proprio nel mare nostro ci giochiamo la sopravvivenza geopolitica o energetica, soltanto qui possiamo approfondire la nostra influenza, ampliare l’arco di respingimento contro eventuali offensive. Tantomeno immaginiamo di dominare tale spazio insidioso, immenso, estraneo alle vicende brussellesi che riteniamo primarie. Disposti ad accettare l’oneroso ruolo di difensori marittimi dell’area Schengen, intestata a una continentale cittadina lussemburghese, perpetuando la visione di un Mediterraneo impossibile, coincidente con la sola estensione dell’Unione Europea.
Imposta dall’egemone americano dopo averci reso provincia, la disabitudine alla strategia oscura il cruciale ruolo della cultura navale nell’affermazione della potenza. Persuasi dell’impossibile preminenza della terra oppure disinteressati alla questione. Mancanza fatale, in un tempo segnato da perfetta continuità tra Mediterraneo, Oceano Indiano e Oceano Pacifico, fusione che ci precipita senza rete nelle vicende primarie del pianeta. Mentre nei laboratori securitari delle massime potenze vige la certezza che l’egemonia si contenda in mare.
Ne sono certamente consapevoli gli Stati Uniti che attraverso il controllo degli oceani hanno stabilito la propria pax, anche detta globalizzazione. Così la Cina, disperatamente impegnata a tramutarsi in talassocrazia per strappare lo scettro agli americani.
Infine, è l’avanzata età mediana della popolazione che fa terragna l’Italia. Non solo perché il mare è luogo spaventoso, da affrontare con l’incoscienza e la violenza tipiche della gioventù, qualità pressoché irrintracciabili nella Penisola. La diffusa anzianità produce un pacifismo tremebondo, contrario alla navigazione, la più pericolosa tra le iniziative militari, poiché maggiormente esposta ai contatti col nemico, anche dove non esistono avamposti di frontiera. Eventi quotidiani per le principali Marine del pianeta, gli scontri in mare sono per gli italiani semplicemente intollerabili, specie al largo del Nord Africa o del Levante, regioni valutate inutili. Ritrosia esplicitata dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte, per cui «la nostra flotta non partecipa alla guerra in Libia o nel Mediterraneo» 13.
Abbastanza per conservarci a debita distanza dal mare, per confermarci incredibile paese di terra, (temporaneamente) a galla nel Mediterraneo. Quando perfino nazioni dotate di geografia e mezzi navali inferiori profittano della nostra incompiutezza. Senza che tanto dissesto ci conduca verso i flutti.
6. L’Italia dispone di un eccezionale vantaggio strategico. Esiste al centro del Mediterraneo. Si affaccia su entrambi i versanti del mare, è passaggio inaggirabile di ogni scambio, di ogni flusso. Può muovere in molteplici direzioni senza grande sforzo, non è circondata da potenze navali di peso superiore – a esclusione della Francia. La nostra Marina militare resta tra le più attrezzate d’Europa, tra le pochissime del pianeta a possedere una reale portaerei. Ancora, nel mare nostro intendiamo estrarre gas al largo dell’Egitto, di Cipro.
Eppure turchi e russi dominano la Libia, territorio essenziale per la nostra difesa, per la gestione dei migranti, per l’approvvigionamento energetico. Addirittura Ankara, sprovvista di una flotta rilevante, addestra la guardia costiera di Tripoli. Così siamo esclusi dalla disputa nel Mediterraneo orientale. Non sappiamo incidere sulla Tunisia, tantomeno sull’Egitto, platealmente sovraordinato alla nostra volontà.
I porti italiani mancano di infrastrutture adeguate. Venezia è adibita al solo attracco di navi da crociera, Taranto è gravemente sottosviluppata, il porto di Trieste concesso a un consorzio tedesco (cui forse s’aggiungeranno i cinesi, soci di minoranza), senza che l’opinione pubblica se ne curi. Fallimenti che palesano la natura antropologica della vocazione marittima, estranea al semplice computo di mezzi e risorse.
A dispetto dei dati, l’indifferenza della cittadinanza per le onde ci preclude il perseguimento degli obiettivi vitali, ci espone alle manovre dei vicini. Soltanto il coinvolgimento del Settentrione nelle vicende acquatiche e l’abbandono dell’europeismo che ci allunga verso nord produrrebbero una (ri)scoperta dell’indole marinara. Soltanto un ringiovanimento della popolazione, con conseguente disinvoltura nell’utilizzo dello strumento militare, consentirebbe di profittare del maggiore lassismo degli Stati Uniti per puntellare la nostra influenza.
Svolta impraticabile per inconsapevolezza di apparati e connazionali, per preminenza dell’economicismo, per simultanea contrarietà di Stati Uniti e Germania. Congiuntura asfittica che conserverà l’Italia nella sua bizzarra esistenza. Penisola amena, che tanto sognò la terra da perdere il mare.
Note:
1. Cfr. D. Fabbri, «Il “disumano” passaggio dalla terra al mare», Limes, «Gerarchia delle onde», n. 7/2019, pp. 35-46.
2. Cfr. P. Mieli, I conti con la storia, Milano 2013, Rizzoli.
3. Cfr. W.E. Gladstone, Lettere sul Regno di Napoli, Brindisi 2015, Trabant, p. 87.
4. Citato in E. Mastrangelo, «L’Inghilterra, il Regno delle Due Sicilie e l’unità d’Italia: come provare a creare uno Stato satellite», Nuova Rivista Storica, novembre-dicembre 2011, pp. 30-35.
5. Cfr. Accordo anglo-italiano, 12/2/1887.
6. Cfr. P. Karsten, The Naval Aristocracy: The Golden Age of Annapolis and the Emergence of Modern American Navalism, New York City 1972, Free Press.
7. Cfr. T.P. Brown, Fields of Friendly Strife, West Bloomfield 2017, Brown House Publishing.
8. Cfr. C.B. Cavour, «Des Chemins de fer en Italie», La Revue Nouvelle, tomo VIII, anno X, 1856.
9. Cfr. Discorso di Benito Mussolini al Gruppo Sciesa in Milano, 5/10/22.
10. Citato in L. Caracciolo, «Prefazione» a Italy on the Rimland, Quaderno Sism 2019.
11. Cfr. Audizione del Comandante della Scuola Sottufficiali della Marina militare di Taranto, Contrammiraglio Enrico Giurelli presso la Camera dei Deputati, 6/2/2019.
12. Cfr. «Da Mare Nostrum a mare di nessuno e le Frecce Tricolori nel cielo di Assisi», Avvenire, 24/10/2020.
13. Cfr. Intervento del presidente del Consiglio dei ministri al VII Festival di Limes, Genova, 16/10/2020.
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