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venerdì 8 maggio 2020

TRADURRE LA SOCIETA' DEL CARE DA COSTRUIRE

"Siamo in guerra": alla luce di ciò che sappiamo delle interdipendenze che caratterizzano il nostro tempo, l'espressione presidenziale di fronte all'epidemia di Covid-19 sembra essere una contraddizione storica. È testimone della difficoltà che gli attori del vecchio mondo hanno nella comprensione della realtà, ovvero siamo al contrario in un periodo di " cura" - termine consacrato da opere per due decenni sulle vulnerabilità reciproche e sulla presa in considerazione delle esigenze reciproche.
In altri termini, ora siamo costretti a "prenderci cura o care in inglese" degli umani e dei non umani a tutti i livelli di scala come naturale conseguenza di una nuova era segnata dalle interdipendenze globalizzate dell'Antropocene.


Per comprendere le problematiche contemporanee legato alla nozione di assistenza, dobbiamo per prima cosa andare oltre la squalifica teorica e politica di cui questa nozione è stata oggetto a causa della sua associazione con il mondo "femminile" e alle "donne". Questa squalifica risale a molto tempo fa ed è radicata in una concezione patriarcale e moderna dell'azione nello spazio sociale.

La modernità che ha strutturato le società occidentali sin dal 16 ° secolo è l'erede di un patriarcato molto antico (specialmente nelle sue forme cristiane), il quale già dissociava e gerarchizzava il maschile e il femminile.

Ma questa modernità ha la sua caratteristica nel aver associato a una definizione maschile di azione una definizione propriamente moderna di autonomia, in modo che l'azione moderna per eccellenza - quella di studiosi, politici, artisti, conquistatori, ingegneri, capitani dell'industria - sia l'azione di persone liberate da obblighi sociali e totalmente impegnati nelle loro imprese.
 
 Tuttavia, questa autonomia dei moderni è sia potente a livello ideologico sia illusoria a livello empirico: per alcuni (uomini, bianchi, ricchi, ambiziosi) per essere "autonomi", è necessario che "altri", assegnato a compiti domestici e assistenziali, forniscano le condizioni sociali necessarie per questa autonomia a causa delle reali interdipendenze di tutti gli esseri.

Rendere visibile la nozione di cura.

È tutto questo lavoro essenziale di prendere in considerazione le interdipendenze e le vulnerabilità che copre il concetto di cura, e questa attività era tanto più invisibile perché assegnata a esseri subordinati e squalificati come le donne, i colonizzati, i poveri, i migranti.
 Ad esempio, la nascita del moderno ospedale fu così ottenuta escludendo la conoscenza di alcune donne (guaritrici, ostetriche) in nome di un'eroica scienza medica riservata agli uomini e assegnando alle donne dei ruoli subordinati come il "prendersi cura" associato alle abilità "naturali" - e quindi quasi libere - delle donne - infermiere, OSS, badanti in senso ampio.

Questo è il motivo per cui una prima forma - spesso femminista - di riabilitazione del concetto del "prendersi cura" consisteva nel difendere l'utilità, le capacità e il valore (anche in termini di stipendio) di questo lavoro. Le mobilitazioni delle infermiere negli anni '80 con lo slogan:  "Né suore, né domestiche né stupide" furono molto presenti come manifestazioni in Francia.
 
Ma questo vale anche per tutto il lavoro sociologico riguardante i lavoratori "invisibili" nella cura di bambini, adolescenti, malati, anziani, persone con disabilità, il più delle volte associati al "lavoro gratuito", ossia di donne nel contesto domestico.

Le società moderne sono quindi paradossali: sostengono l'autonomia come valore comune centrale organizzando la dipendenza della maggior parte per il raggiungimento dell'autonomia di alcuni e squalificando tale essenziale lavoro di supporto. Al punto che l'autonomia delle donne della classe media e alta è stata resa possibile meno condividendo il lavoro domestico (attraverso la riduzione dell '"autonomia" degli uomini) che spostando il lavoro di cura ad altre donne. più dipendenti: tate, governanti, badanti.

Al punto che i tentativi di introdurre il tema del "prendersi cura" nell'agenda politica ha innescato le classiche squalifiche di una politica al "femminile", cioè come modalità non seria di fare politica.
 
Sfidare il concetto di autonomia

È proprio a causa di queste resistenze nel cuore di una modernità maschilista che il pensiero femminista della cura è stato portato a un cambio di paradigma che tende a squalificare, in cambio, questa concezione moderna e mascolinista di autonomia. Per Joan Tronto, una filosofa politica femminista, è la stessa nozione di autonomia che deve essere messa in discussione perché ciò che esiste è esattamente il suo contrario: interdipendenze e vulnerabilità.

Le interdipendenze le cui riflessioni sull'Antropocene mostrano che sono molto più estese del pensiero della modernità, compresi non solo tutti gli umani ma anche i non umani, e questo su scala planetaria. E una vulnerabilità che possiamo vedere chiaramente non riguarda solo determinate categorie di esseri subordinati di cui prendersi cura: bambini, malati, anziani, ecc. - ma una vulnerabilità che, come dimostra questo episodio epidemico, riguarda tutti per tutta la vita e riguarda il mondo stesso - nelle sue dimensioni ambientali, economiche e geopolitiche. In questo senso, nell'era antropocenica, la cura è ciò che rende possibile articolare le dimensioni femministe dell'analisi delle relazioni di genere con le dimensioni ecologiche dell'analisi delle interdipendenze contemporanee.
 In altre parole, la cura non può essere ridotta a "storie di una brava donna" che esplode in politica, non è solo preoccupazione per certe persone vulnerabili, né lo è semplicemente riabilitare gli operatori sanitari è fondamentalmente la questione centrale nella definizione di cosa sia o dovrebbe essere la solidarietà sociale nell'era antropocenica.

Per le scienze sociali, questo problema, che esisteva prima dell'epidemia di Covid-19 e che determinerà l'orientamento del "dopo", è organizzato attorno a una conflittualità centrale tipica di questo momento storico. Da un lato, in un approccio ipermoderno di tipo Trump (nazionalista, produttivista, tecnico), ciò comporta forme di solidarietà esclusive e spesso gerarchiche che consistono nella difesa - in modo illusorio a causa delle interdipendenze e degli inevitabili effetti di ritorno - l autonomia di alcuni trasferendo rischi ed effetti in cambio di altri - l'ambiente, i poveri, gli stranieri.

D'altra parte, in un approccio più riflessivo, ciò comporta l'invenzione di forme di solidarietà più egualitarie e più inclusive - compresi i non umani - che potrebbero consentire di evitare la catastrofe annunciata delle conseguenze della modernità. In altre parole: molto più dello stato di guerra, "lo stato di cura" è sia ciò che descrive le nostre attuali interdipendenze sia ciò che potrebbe guidare le nostre scelte e le nostre priorità di intervento. 
 
Autore Eric Macé
 https://theconversation.com/nous-ne-sommes-pas-en-guerre-nous-sommes-en-care-137619

Nous ne sommes pas en guerre, nous sommes en « care »

« Nous sommes en guerre » : à la lumière de ce que nous savons des interdépendances qui caractérisent notre époque, l’expression présidentielle face à l’épidémie de Covid-19 apparaît comme un contre-sens historique. Il est le témoin de la difficulté qu’ont les acteurs de l’ancien monde à comprendre, qu’à l’inverse, « nous sommes en care » – terme consacré par des travaux depuis deux décennies sur les vulnérabilités réciproques et la prise en compte des besoins de l’autre. C’est-à-dire que nous désormais obligés de « prendre soin » des humains et des non-humains à tous les niveaux d’échelle, conséquence d’une ère nouvelle marquée par les interdépendances mondialisées de l’anthropocène.
Pour comprendre les enjeux contemporains du care, il faut tout d’abord dépasser la disqualification théorique et politique dont cette notion a été l’objet en raison de son association au « féminin » et aux « femmes ». Cette disqualification remonte à loin, elle s’enracine dans une conception patriarcale et moderne de l’action.
La modernité qui a structuré les sociétés occidentales depuis le XVIe siècle est héritière d’un patriarcat plus ancien (notamment dans ses formes chrétiennes) qui dissociait et hiérarchisait déjà le masculin et le féminin.
Mais cette modernité a en propre d’avoir associé à une définition masculine de l’action une définition proprement moderne de l’autonomie, de sorte que l’action moderne par excellence – celle des savants, des politiques, des artistes, des conquérants, des ingénieurs, des capitaines d’industrie – est l’action d’individus libérés des obligations sociales et tout entier engagés dans leurs entreprises.
Or cette autonomie des modernes est à la fois puissante sur le plan idéologique et illusoire sur le plan empirique : pour que certains (hommes, blancs, riches, ambitieux) soient « autonomes », il faut que des « autres », assignés à aux tâches domestiques et de soin, assurent les conditions sociales nécessaires à cette autonomie en raison des interdépendances réelles de tous les êtres.

Rendre visible la notion de care

C’est tout ce travail indispensable de prise en compte et de prise en charge des interdépendances et des vulnérabilités que recouvre la notion de care, et cette activité a d’autant plus été invisibilisée qu’elle a été assignée à des êtres subalternes et disqualifiés – les femmes, les colonisés, les pauvres, les migrantes.
La naissance de l’hôpital moderne s’est faite ainsi par l’exclusion du savoir de certaines femmes (guérisseuses, accoucheuses) au nom d’une science médicale héroïque réservée aux hommes, et par l’assignation des femmes aux rôles subalternes d’un « prendre soin » associé aux compétences « naturelles » – et donc quasi gratuit – des femmes – infirmières, aides-soignantes, femmes de salle.
C’est pourquoi une première forme – souvent féministe – de réhabilitation de la notion de « prendre soin » a consisté à défendre l’utilité, les compétences et la valeur (y compris en termes de salaire) de ce travail, et les mobilisations infirmières des années 1980 – « Ni nonnes, ni bonnes ni connes » – en ont été en France une des manifestations.

Reportage sur le burn-out des soignantes, 2012.
Mais c’est le cas également de tous les travaux sociologiques concernant les travailleuses et travailleurs « invisibles » de la prise en charge des jeunes enfants, des malades, des vieux, des personnes en situation de handicap, le plus souvent associé au « travail gratuit » des femmes en contexte domestique.
Les sociétés modernes sont donc paradoxales : elles prônent l’autonomie comme une valeur commune centrale tout en organisant la dépendance de la plupart à la réalisation de l’autonomie de certains et tout en disqualifiant ce travail de soutien indispensable. Au point que l’autonomie des femmes de classes moyennes et supérieures a été rendue possible moins par le partage du travail domestique (via la réduction de « l’autonomie » des hommes) que par le déport du travail de soin sur d’autres femmes plus dépendantes : nounous, femmes de ménage, auxiliaires de vie.
Au point que les tentatives d’introduction de cette thématique du « prendre soin » dans l’agenda politique a déclenché les disqualifications classiques d’une manière « féminine » – c’est-à-dire pas sérieuse – de faire de la politique.

Read more: Benoît Hamon, la « care » attitude

Contester la notion d’autonomie

C’est précisément en raison de ces résistances inscrites au cœur d’une modernité masculiniste que la pensée féministe du care a été conduite à un changement de paradigme tendant à disqualifier, en retour, cette conception moderne et masculiniste de l’autonomie. Pour Joan Tronto, philosophe politique féministe, c’est la notion même d’autonomie qu’il faut contester car ce qui existe c’est exactement son contraire : les interdépendances et la vulnérabilité.
Des interdépendances dont les réflexions menées sur l’anthropocène montrent qu’elles sont beaucoup plus étendues que ne le pensait la modernité, incluant non seulement tous les humains mais aussi les non-humains, et ceci à l’échelle planétaire. Et une vulnérabilité dont on voit bien qu’elle ne concerne pas que certaines catégories d’êtres subalternes dont il faudrait « prendre soin » – enfants, malades, vieux..etc. – mais une vulnérabilité qui, comme le montre cet épisode épidémique, concerne chacun tout au long de sa vie et concerne le monde lui-même – dans ses dimensions environnementales, économiques, géopolitiques. En ce sens, à l’ère de l’anthropocène, le care c’est ce qui permet d’articuler les dimensions féministes de l’analyse des rapports de genre avec les dimensions écologiques de l’analyse des interdépendances contemporaines.

Martine Aubry, édile de Lille et partisane d’une éthique du care en politique depuis les années 2010, ici le 15 mars 2020 lors du premier tour des élections municipales. Francois Lo Presti/AFP
Autrement dit, le care n’est pas réductible à des « histoires de bonne femme » faisant irruption en politique, ce n’est pas seulement de la sollicitude à l’endroit de certaines personnes vulnérables, et ce n’est pas non plus une juste réhabilitation des travailleuses et travailleurs du soin, c’est plus fondamentalement l’enjeu central de la définition de ce que sont ou devraient être les solidarités sociales à l’ère de l’anthropocène.
Pour les sciences sociales, cet enjeu qui existait avant l’épidémie de Covid-19 et qui va déterminer l’orientation de « l’après », s’organise autour d’une conflictualité centrale typique de ce moment historique. D’un côté, dans une approche hypermoderne de type Trump (nationaliste, productiviste, techniciste), cela passe par formes de solidarité exclusives et souvent hiérarchisées qui consistent à défendre – de manière illusoire en raison des interdépendances et des effets en retour inévitables – l’autonomie de certains en transférant les risques et les effets en retour sur d’autres – l’environnement, les pauvres, les étrangers.
D’un autre côté, dans une approche plus réflexive, cela passe par l’invention de formes de solidarité plus égalitaires et plus inclusives – y compris les non-humains – qui pourraient permettre d’éviter la catastrophe annoncée des conséquences de la modernité. Autrement dit : bien plus que l’état de guerre, « l’état de care » est à la fois ce qui décrit nos interdépendances actuelles et ce qui pourrait orienter nos choix et nos priorités d’intervention.

https://theconversation.com/nous-ne-sommes-pas-en-guerre-nous-sommes-en-care-137619

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