ERNESTO
DE MARTINO
|
Ernesto De martino nacque a Napoli il 1 dicembre 1908 da
Ernesto, ingegnere delle Ferrovie dello Stato, e da Gina Jaquinangelo.
All'università di Napoli segui la scuola di Adolfo Omodeo, con cui si laureò
nel 1932 con una tesi in storia delle religioni e che lo introdusse nella
cerchia di Benedetto Croce. Della filosofia crociana, anche attraverso
l'insegnamento dell'Omodeo, De Martino assorbì l'indirizzo storicista che
difenderà fino all'ultimo con tenacia, pur sviluppandolo e integrandolo con
apporti speculativi eterogenei, e ampliandone l'applicazione a settori
praticamente esclusi dal Croce, come la storia delle religioni e l'etnologia.
Lì De Martino allargò la prospettiva della speculazione crociana fin dal suo
primo libro, Naturalismo e storicismo nell'etnologia (Bari 1941), che
segnò l'inizio di una laboriosa e metodica riflessione critica nel campo delle
teorie etnologiche dominanti in ambito internazionale. Le varie correnti di
pensiero, dal prelogismo di L. Lèvy-Bruhl, al sociologismo di Durkheim, alla
scuola di Vienna di Wilhelm Schmidt con la sua teoria storico-culturale o
diffusionista, al funzionalismo di Malinowski in Gran Bretagna, fino
all'appendice dell'antropologia applicata statunitense, venivano passate al
vaglio di un pensiero critico che intendeva dimostrarne un comune presupposto
antistoricista - per il de Martino "naturalistico" - dichiarato o implicito.
Scrive de Martino:
“La ricerca etnologica è condotta, di solito, naturalisticamente. […] La presente raccolta di saggi intende rivendicare il carattere storico dell’etnologia, e limitare il procedimento naturalistico all’eurisi filologica, o al pratico ordinamento dei fatti in attesa di una storiografia che sarà”[1].
Lo storicismo crociano è dunque assunto come bussola con la
quale orientare la ricerca entologica.
Il contatto con Raffaele Pettazzoni, che a cominciare dal 1934 ne pubblicava
vari contributi nella rivista da lui fondata e diretta, "Studi e Materiali
di Storia delle religioni", maturò e orientò sempre più gli interessi del
de Martino verso l'etnologia religiosa e la storia delle religioni (in cui
conseguirà la libera docenza rispettivamente nel 1952 e nel 1956). Particolare
impegno egli pose fin dalla prima fase della sua attività di studioso
nell'affrontare i problemi interpretativi - connessi con i fenomeni di magia, a
ciò spinto anche da un suo preliminare interesse psicologico.
A questa prima fase di ricerche appartengono infatti vari contributi che
rivelano precisi interessi per la metapsichica, il magismo e i fenomeni
sciamanici (Percezione extra sensoriale e magismo etnologico, ibid., XVIII
[1942], pp. 1-19, e XIX-XX [1943-1946], pp. 31-84; Lineamenti di etnometa
psichica, ibid., XVIII [1942]. pp. 113-139; Di alcune condizioni delle sedute
metapsichiche alla luce del magismo sciamanistico, in Rivista di antropologia,
XXXIV [1942-1943], pp. 479-490).
In questo senso il de Martino si dimostrava pionieristicamente avviato ad
affrontare temi che avrebbero, ma solo più tardi in Italia, sollecitato, entro
gli ambienti psichiatrici, crescenti contatti e rapporti con l'etnologia, così
da sviluppare una nuova branca autonoma, nell'ambito delle discipline
psichiatriche, che avrebbe preso corpo nella psichiatria transculturale o
etnopsichiatria.
Ne Il mondo magico (Torino 1948) - primo volume della collana di studi
religiosi, etnologici e psicologici diretta da C. Pavese e poi dallo stesso de
Martino - egli legava vistosamente i problemi d'interpretazione dei mondi
culturali "primitivi" di livello etnologico, con i problemi
d'interpretazione riguardanti la realtà dei poteri magici in generale. Qui per
la prima volta il de Martino prendeva le distanze dal crocianesimo ortodosso
sostenendo la tesi della storicizzabilità delle categorie crociane.
Contro la filosofia implicitamente etnocentrica del Croce, che ignorava o
poneva in parentesi i mondi culturali delle società "primitive" extra
occidentali, egli rivalutava il mondo culturale di magismo delle società
tradizionali, che faceva oggetto di una autonoma problematica storiografica.
Lo “storicismo pigro”[2]
e “sermoneggiante”[3]
dei “Crociani”, dogmatico e intento a tramutare ogni verità in verità spirituale
e statica, è assolutamente incapace di guardare al di là della civiltà
occidentale, nei cui confini resta imprigionato.
Il mondo della magia, di cui le società "primitive" offrono imponenti manifestazioni ch'egli assume a documento, ha per lui una sua realtà precategoriale ed è visto come una primordiale rappresentazione del mondo, funzionale al bisogno - per usare i termini da lui adottati - di "garantire la presenza". Sensibile fin da quest'opera è l'influenza dell’esistenzialismo di Martin Heidegger, da cui egli mutua alcuni concetti-base e in parte il linguaggio (è heideggeriana la nozione di “esserci”), introducendo nel campo dell'antropologia religiosa nozioni quali quella di "crisi della presenza" e quella di "riscatto dalla crisi": un riscatto attuato, secondo il de Martino, per il tramite del rituale magico religioso, inteso come tecnica. di superamento della crisi e della "angoscia della storia". In quell’epoca dai contorni ben definiti che è il “mondo magico”, l’esserci nel mondo non è certo né garantito, ma è piuttosto “una realtà condenda”[4], sempre esposta al rischio della labilità e dell’annullamento, a cimenti tremendi che “possono mettere a dura prova la resistenza del ‘ci sono’”[5], al pericolo di perdere l’anima e di non esserci più. Esattamente in questo risiede il “dramma storico” che caratterizza il mondo magico. E la volontà di esserci come presenza davanti al rischio di non esserci è l’angoscia che accompagna sempre e di nuovo l’uomo di quel mondo. A questa prospettiva erano approdati anche i cosiddetti “irrazionalisti” (Lévy-Bruhl, Klages, Dacqué), che però ad essa si erano arrestati, senza accorgersi che il mondo magico è anche percorso dallo sforzo di sottrarsi al rischio di non esserci. In vista di ciò, è la magia a elaborare sempre nuove strategie (guarentigie, compromessi, compensi) per garantire la presenza umana nel mondo, per agire in esso anziché essere agiti da esso. In particolare, sventare il rischio della scomparsa della presenza è compito di quello che De Martino chiama “l’eroe della presenza, il Cristo magico, cioè lo stregone”, il quale vive la dissoluzione e il riscatto della sua presenza anche per gli altri. Questa concezione della presenza è antitetica rispetto a quella della cultura occidentale, per la quale l’“io” è un dato che cade al di là di ogni possibile dubbio: dai Greci in poi, passando per il Cristianesimo, siamo abituati a considerare la presenza come l’esserci elementare, fondato e condizionato dal principio – tematizzato da Immanuel Kant – dell’atto della funzione sintetica trascendentale: così intesa, la presenza si mantiene in quanto capace di trascendere, attraverso l’atto, qualsiasi contenuto esistenziale, qualsiasi accadimento emozionale della vita individuale o collettiva. A differenza di noi, che riportiamo immediatamente tutte le nostre percezioni a un “io” trascendentale e stabile, gli uomini del mondo magico non operano tale sintesi e per loro, in forza di questo mancato riferimento a un’unità, i contenuti esperienziali diventano pericolosi per la presenza, in quanto caotici e disordinati, e devono dunque essere disciplinati attraverso la magia. In particolare, la crisi è plasmata e controllata attraverso la ripetizione di gesti e tecniche che costituiscono il patrimonio collettivo e storico del “così si fa”.
Il mondo della magia, di cui le società "primitive" offrono imponenti manifestazioni ch'egli assume a documento, ha per lui una sua realtà precategoriale ed è visto come una primordiale rappresentazione del mondo, funzionale al bisogno - per usare i termini da lui adottati - di "garantire la presenza". Sensibile fin da quest'opera è l'influenza dell’esistenzialismo di Martin Heidegger, da cui egli mutua alcuni concetti-base e in parte il linguaggio (è heideggeriana la nozione di “esserci”), introducendo nel campo dell'antropologia religiosa nozioni quali quella di "crisi della presenza" e quella di "riscatto dalla crisi": un riscatto attuato, secondo il de Martino, per il tramite del rituale magico religioso, inteso come tecnica. di superamento della crisi e della "angoscia della storia". In quell’epoca dai contorni ben definiti che è il “mondo magico”, l’esserci nel mondo non è certo né garantito, ma è piuttosto “una realtà condenda”[4], sempre esposta al rischio della labilità e dell’annullamento, a cimenti tremendi che “possono mettere a dura prova la resistenza del ‘ci sono’”[5], al pericolo di perdere l’anima e di non esserci più. Esattamente in questo risiede il “dramma storico” che caratterizza il mondo magico. E la volontà di esserci come presenza davanti al rischio di non esserci è l’angoscia che accompagna sempre e di nuovo l’uomo di quel mondo. A questa prospettiva erano approdati anche i cosiddetti “irrazionalisti” (Lévy-Bruhl, Klages, Dacqué), che però ad essa si erano arrestati, senza accorgersi che il mondo magico è anche percorso dallo sforzo di sottrarsi al rischio di non esserci. In vista di ciò, è la magia a elaborare sempre nuove strategie (guarentigie, compromessi, compensi) per garantire la presenza umana nel mondo, per agire in esso anziché essere agiti da esso. In particolare, sventare il rischio della scomparsa della presenza è compito di quello che De Martino chiama “l’eroe della presenza, il Cristo magico, cioè lo stregone”, il quale vive la dissoluzione e il riscatto della sua presenza anche per gli altri. Questa concezione della presenza è antitetica rispetto a quella della cultura occidentale, per la quale l’“io” è un dato che cade al di là di ogni possibile dubbio: dai Greci in poi, passando per il Cristianesimo, siamo abituati a considerare la presenza come l’esserci elementare, fondato e condizionato dal principio – tematizzato da Immanuel Kant – dell’atto della funzione sintetica trascendentale: così intesa, la presenza si mantiene in quanto capace di trascendere, attraverso l’atto, qualsiasi contenuto esistenziale, qualsiasi accadimento emozionale della vita individuale o collettiva. A differenza di noi, che riportiamo immediatamente tutte le nostre percezioni a un “io” trascendentale e stabile, gli uomini del mondo magico non operano tale sintesi e per loro, in forza di questo mancato riferimento a un’unità, i contenuti esperienziali diventano pericolosi per la presenza, in quanto caotici e disordinati, e devono dunque essere disciplinati attraverso la magia. In particolare, la crisi è plasmata e controllata attraverso la ripetizione di gesti e tecniche che costituiscono il patrimonio collettivo e storico del “così si fa”.
Scrive de Martino:
“L’uomo magico è esposto al rischio
della labilità nelle sue solitarie peregrinazioni, allorché la solitudine, la
stanchezza connessa al lungo peregrinare, la fame e la sete, l’apparizione
improvvisa di animali pericolosi, il prodursi di eventi inaspettati ecc.,
possono mettere a dura prova la resistenza del ‘ci sono’. L’anima andrebbe
facilmente ‘perduta’ se attraverso una creazione culturale e utilizzando una
tradizione accreditata non fosse possibile risalire la china che si inabissa
nell’annientamento della presenza”[6].
Benedetto Croce sottopose a una critica impietosa l’opera di de Martino, attaccando soprattutto quell’ammissione demartiniana della storicità delle categorie che, di fatto, segnava il punto di maggior rottura con l’ortodosso storicismo crociano[7]. L’errore imperdonabile commesso da de Martino è da Croce ravvisato in un indebito capovolgimento della prospettiva del “vero” storicismo: dimenticandosi che è lo spirito a creare la storia, de Martino ha ammesso l’esatto contrario, facendo dello spirito un qualcosa di creato dalla storia nel suo incessante avanzare. L’aspetto forse più interessante di questa querelle è che Croce, nel formulare la sua condanna del metodo demartiniano, lo accosta alla “prequarantottesca spiritosa invenzione”[8] del marxismo, che, interessato a trasformare il mondo anziché a conoscerlo, ha storicizzato le categorie interpretative.
Sviluppando la sua speculazione etnologico-religiosa, il de Martino si avvale sempre più della psicologia e dell'ausilio offerto dalla sua conoscenza delle scienze psichiatriche, secondo un criterio che sarà da lui stesso più tardi ripreso con il massimo impegno, nell'ultimo periodo della sua attività di studioso, cioè nell'opera cui attendeva prima della prematura morte e che sarebbe stata pubblicata postuma, La fine del mondo. In ciò si rivela una continuità di pensiero e di interessi che procede dai primissimi contributi fino agli ultimi e più impegnativi, attraverso una fase intercalare, pur essa di fondamentale importanza, ma relativamente autonoma e che abbraccia il periodo delle opere "meridionalistiche. Una svolta decisiva nell'esistenza e nell'attività del de Martino fu determinata dalla sua esperienza di militante nei partiti della Sinistra e dal proprio impegno ideologico-sociale.
Dal 1945 egli si trovò ad agire, come segretario di federazione del Partito socialista (PSIUP poi PSI), nell'Italia meridionale: a Bari, Molfetta, poi Lecce (qui in veste di commissario).
Dal 1950 egli aderiva al Partito comunista italiano. Il contatto diretto con i contadini del Sud, e con i problemi del Meridione, impresse un marchio originale sulla personalità dello studioso, che in quell'esperienza ricevette lo stimolo a muoversi verso un'etnologia o antropologia fatta di ricerche sul terreno. Da allora fu spinto ad assumere come problema centrale della propria ricerca l'analisi del folklore religioso nella cultura contadina del Sud.
Se il Meridione d'Italia costituiva da tempo un problema nella coscienza di storici, economisti, sociologi, nessuno aveva fin allora affrontato nella sua autonomia il problema della "cultura" contadina del Sud, vista come complessa e specifica concezione del mondo e collocata sul fondo di una società storicamente determinata. lì de Martino sentì l'urgenza di colmare questo vuoto.
Oltre che dall'esperienza della militanza politica, egli fu indotto a questa scelta anche dalla convergenza di alcuni altri fattori o eventi: in particolare l'uscita del Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi nel 1945 e il conseguente incontro con Levi; l'incontro con Rocco Scotellaro, poeta-contadino lucano, e infine l'uscita dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci nel 1948.
Scoperta - anche attraverso Levi e Scotellaro - la drammatica umanità di quel mondo subalterno, il de Martino si avviò al suo compito di analisi e interpretazione, valendosi degli strumenti offertigli dalla sua consapevolezza di storico, dalle tecniche della ricerca etnologica e dalla chiave interpretativa - marxista e classista - che Gramsci gli offriva relativamente alle forme di quel folklore meridionale che Gramsci stesso raccoglieva nella categoria del "cattolicesimo popolare". Le origini, il significato, il persistere di credenze e pratiche magico-religiose arcaiche tra i ceti rurali del Sud sono infatti studiati dal de Martino nel contesto di una storia sociale che ne costituisce la base determinante. Cosi, con una serie di missioni etnografiche dai primi anni '50, egli raccolse una quantità di documenti relativi a manifestazioni magico-religiose e ne studiò le origini storiche, i rapporti con le condizioni storiche e sociali attraverso i secoli, i motivi impliciti che ne giustificavano il persistere. Tutti i fenomeni posti al centro della sua indagine avevano in effetti origini arcaiche, precristiane, da un antico fondo di civiltà agrarie, ed erano stati a lungo oggetto di polemiche, di repressioni, di interventi adattivi da parte della Chiesa ufficiale. Oggetto della sua investigazione particolarmente furono: il complesso mitico-rituale della fascinazione in Lucania (Sud e magia, Milano 1959); le persistenze del pianto funebre in Lucania (Morte e pianto rituale nel mondo antico, Torino 1958); il tarantismo del Salento (La terra del rimorso, Milano 1961).
Il perdurare di tali rituali e di tali credenze, con le varie manifestazioni connesse di sincretismo pagano-cristiano, è interpretato come espressione di una resistenza implicita, inconsapevole e disorganica alla cultura ufficiale cristiana, rappresentata dalla Chiesa.
La storia delle varie polemiche del clero e dei sinodi ecclesiastici contro tali manifestazioni è dallo studioso ripercorsa a prova della sua interpretazione, che spiega anche gli adattamenti della politica culturale ecclesiastica nell'assorbire e riplasmare culti e credenze d'origine arcaica.
D'altra parte il de Martino spiega il perdurare ditali arcaismi secondo ragione storica, come espressione di una concezione del mondo propria di una società rimasta per secoli nell'isolamento da parte dei poteri centrali e delle istituzioni ufficiali che l'emarginarono e la sfruttarono. La "miseria culturale", - egli afferma - è lo specchio di una miseria psicologica determinata a sua volta da condizioni storico-sociali imposte all'intero Mezzogiorno da un regime di subalternità plurisecolare e che pure in epoca contemporanea in certa misura persiste o fa pesare le sue conseguenze a lungo termine, il folklore religioso appare dunque come il riflesso della "non storia" del Sud, e cioè della continua repressione subita.
Nel loro insieme le tre opere meridionalistiche costituiscono un nucleo paradigmatico di studi di storia sociale, religiosa e culturale, condotti sulla base di inchieste dirette e reiterate, operate da lui sul posto mediante interviste, osservazione partecipante e con l'ausilio dei mezzi d'inchiesta allora aggiornati, quali registratore, macchine da ripresa, ricostruzione di momenti e sequenze di vita locale. Con queste opere s'inaugurò in Italia un importante filone di ricerche di antropologia culturale, o etnologia della società meridionale metropolitana, destinato ad avere sviluppi crescenti, dopo la morte del de Martino, da parte di antropologi di più giovane generazione, che in queste opere hanno trovato una fonte di stimoli e di sollecitazioni.
Infatti, anche se negli ultimi anni le tecniche e le metodologie della ricerca antropologica dispongono di un apparato empirico più sofisticato e hanno sviluppato problematiche via via più penetranti, gli studi pionieristici del de Martino costituiscono un inevitabile punto di riferimento.
Particolare importanza come tecnica innovativa da lui inaugurata è quella dell'indagine interdisciplinare, che egli adottò soprattutto nello studio del tarantismo pugliese, con l'unione in un'unica èquipe di uno psichiatra, di una psicologa, oltre allo storico delle religioni, a un'antropologa culturale, all'etnomusicologo e al documentarista cinematografico. il criterio della interdisciplinarietà sarebbe poi rimasto come un'acquisizione ed un'esigenza definitiva negli studi etno-antropologici.
Divenuto professore di ruolo di storia delle religioni nella facoltà di lettere dell'università di Cagliari dal dicembre 1959, al periodo meridionalista successe un periodo di approfondimenti e sviluppi problematici.
Lì de Martino da un lato scoprì e pose in questione una serie di manifestazioni religiose o parareligiose di tipo extraufficiale nel cuore della società borghese occidentale: rigurgiti di magismo in Germania, feste carnevalesche a carattere orgiastico-contestativo nella Svezia di fine anni '50 (il capodanno di Stoccolma), insieme con altre manifestazioni rituali d'ambito ufficiale nella società socialista dell'URSS, come il simbolismo cerimoniale sovietico (Furore, simbolo, valore, Milano 1962).
D'altronde egli dette avvio ad una ricerca interdisciplinare intorno ad una tematica nuova, quella dell'apocalisse e dei miti escatologici.
Per l'analisi di questo tema raccolse materiale non solo dal campo della storia religiosa in un'accezione ampia che include accanto al giudeo-cristianesimo anche le religioni "primitive", ma anche dalla letteratura moderna della crisi – Sartre, Moravia, Camus, dalla filosofia e dai teorici del marxismo classico, dalla psichiatria.
Alle prese con tale complessa tematica, la sua personalità poliedrica si dispiegò interamente avvalendosi dell'apporto delle diverse discipline suindicate, dimostrando la natura multiforme dei suoi interessi culturali, che travalicavano le partizioni accademiche e le etichettature formali. Del resto la poliedricità delle sue aperture speculative inducevano in lui una particolare ambivalenza sul piano dell'impostazione epistemologica.
Infatti egli tendeva a unificare prospettive di per sé eterogenee come quella storicista di derivazione crociana, ma riveduta in chiave marxista, con quella fenomenologico-ontologica, volta tipicamente alla identificazione di "universali" e di strutture invarianti d'ordine psicologico. Il saggio Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche (in Nuovi Argomenti, LXIX-LXXI [1964], pp. 105-141), introduceva la tematica a cui egli lavorava dai primi anni '60 e che, interrotta dalla morte, doveva trovare una elaborazione, sebbene incompiuta e frammentaria, nel libro postumo La fine del mondo. Contributo all'analisi delle apocalissi culturali (Torino 1977).
Pur nella incompiutezza che la caratterizza e che ne fa, salvo per la parte psichiatrica, piuttosto una silloge di appunti e di trascrizioni da testi e da autori vari con note e riflessioni personali, quest'opera documenta la somma degli interessi speculativi e culturali dell'ultimo de Martino.
Vi ritorna il tema della crisi e sua reintegrazione religiosa, visto però in una sua autonomia ontologica e non più nel preciso rapporto di condizionamento storico-sociale entro cui era collocato e interpretato nelle precedenti opere meridionalistiche. Un riaccostamento all' impostazione fenomenologica prevalsa ne lì mondo magico distacca quest'ultima fase della riflessione demartiniana da quella più legata allo storicismo gramsciano che domina nei tre libri dedicati al folklore del Sud: e ciò si dica anche se già nella seconda edizione de Il mondo magico (1958) l'autore aveva ritrattato la precedente sua tesi che poneva la magia in una fase precategoriale dello sviluppo del pensiero umano, per riaderire ai fondamenti delle critiche mossegli dal Croce.
Ne La fine del mondo lo storicismo assoluto del primo de Martino - secondo il quale il senso e le forme delle civiltà umane e delle religioni si risolvono per intero e senza residui nella loro storia - sfuma, lasciando notevole spazio ad una prospettiva fenomenologico-psicologistica. Nel contempo è vigorosamente riaffermata la funzione liberante della visione del mondo laica marxista. Pertanto l'apocalittica marxiana è contrapposta a quella alienante delle religioni, mentre per la prima volta il de Martino prende atto del valore innovativo e creativo che studi recenti hanno riconosciuto nei movimenti profetici, millenaristi e apocalittici di liberazione delle popolazioni ex coloniali del Terzo Mondo.
Anche nell'ultimo e incompiuto lavoro si rivelavano, da squarci di apertura geniale, la ricchezza e la densità di riflessione tipiche del de Martino. In questo lavoro, come nei precedenti, egli parte da esperienze dell'oggi e del qui, da problemi, situazioni, crisi incombenti nella nostra civiltà contemporanea, per risalire da qui - in uno sforzo di comprensione storica universale - all' osservazione e all'analisi di mondi "altri" in senso psicologico (il mondo della psicopatologia), ovvero in senso storico cronologico (il mondo del cristianesimo primitivo), ed in senso storico-culturale (il mondo delle culture extraoccidentali oggetti di studio dell'etnologia). Precisamente di fronte all'arduo compito assuntosi di una comprensione storica universale, il de Martino si pone metodicamente il problema della giusta prospettiva spettante allo scienziato che guarda all'"alieno" e alle culture "altre".
Di qui si sviluppa la sua riflessione intorno al tema degli etnocentrismi: una riflessione che aveva impegnato l'autore, ma su un piano pratico-operativo diretto, fin dall'epoca delle sue ricerche nel Mezzogiorno, nel sistematico incontro-scontro con i portatori di modelli culturali fondamentalmente "alieni" per uno scienziato cresciuto e formatosi nel seno della società borghese ufficiale e colta.
Infatti già allora il de Martino non aveva perduto occasione per esprimere un proprio "senso di colpa" di fronte alla miseria culturale e psicologica delle plebi meridionali: un senso di colpa che intorno a quella stessa epoca ispirava pagine e riflessioni di un altro illustre esponente del pensiero antropologico in Europa, Claude Lèvi-Strauss.
Nello sviluppare in forma riflessa e metodica la sua tesi sull'etnocentrismo, il de Martino rifiutava come decisamente superata ogni forma di etnocentrismo dogmatico, con i suoi condannevoli corollari del razzismo e del pregiudizio sociale. Tuttavia egli respingeva altrettanto decisamente la prospettiva del relativismo culturale d'origine americana, per il quale ciascuna "cultura" vale per sé stessa né deve essere valutata dall'esterno se non in riferimento ai parametri validi per i suoi diretti esponenti. Egli infatti ravvisava la doppiezza e la contraddittorietà di questa posizione teorica e speculativa, la quale, sotto la specie di un liberalismo teorico, nascondeva ogni riserva di intervento pratico-politico sui portatori delle culture aliene.
Il de Martino affermava e proponeva la validità di una posizione che egli stesso aveva assunto nel confronto della cultura contadina meridionale nel corso delle sue precedenti indagini: posizione definita da lui "etnocentrismo critico". Questo è da intendersi come sforzo supremo di allargamento della propria coscienza culturale di fronte ad ogni cultura "altra", e come sofferto processo di presa di coscienza critica dei limiti della propria storia culturale, sociale, politica. L'etnocentrismo critico pone in questione "le stesse categorie di osservazione di cui lo studioso dispone all'inizio della ricerca". … Con questa tensione etico-speculativa si può realizzare, secondo il de Martino, quell'"umanesimo etnografico" che implica un'opera di storicizzazione di sè e della propria cultura, e di autocritica in base al confronto storico-culturale, ma senza rinunziare - com'egli ribadisce - alla idea del primato della civiltà occidentale. lì modello della civiltà europea più avanzata sul piano del sapere scientifico, della tecnologia, dello sviluppo culturale, non può cedere, per il de Martino, ai modelli di culture altre per le quali, pur nell'indispensabile sforzo di conoscerle, capirle e giustificarle sul piano storico, logico e psicosociale, la prospettiva di sviluppo proposta è pur quella di adeguarsi al modello occidentale nelle sue espressioni socialmente più avanzate.
Questa visione eurocentrica, per quanto critica ed autocritica, avrebbe dato avvio poi a discussioni e interventi variamente orientati, negli sviluppi postdemartiniani del pensiero antropologico in Italia.
Per la complessità poliedrica dell'approccio del de Martino allo studio dell'uomo, per la forte tensione etico-sociale-ideologica che permea i suoi scritti, per l'efficacia scandagliatrice delle sue analisi, per la soggettività fascinosa del suo linguaggio - per cui la sua opera si impone anche per il suo valore letterario - la sua produzione si pone al di sopra delle specializzazioni accademiche più o meno settoriali, e pare destinata a riscuotere risonanze durevoli nell'ambito di molteplici discipline, dei più vari orientamenti di studio che hanno a che fare con il problema dell'uomo e di tutti coloro che a tale problema rivolgono un personale e sensibile interesse.
De Martino morì a Roma il 9 maggio 1965. Nel 1977 comparirà l’edizione postuma de La fine del mondo, grazie ad Angelo Brelich e ad altri amici ed allievi di de Martino: l’opera contiene brevi testi e frammenti provenienti da cartelle di appunti. Il tema delle apocalissi culturali è senz’altro dominante, ma porta con sé la tematizzazione di moltissimi altri concetti e la riflessione critica su storici e filosofi a cui l’autore faceva riferimento. Il procedimento seguito dal nostro autore nella ricerca storiografica è quello comparativo, inteso nel senso peculiare del comparativismo differenziale di Raffaele Pettazzoni. Necessaria alla vita non è soltanto la datità del mondo e la sua ovvietà, ma la dialettica che si deve instaurare tra datità e ripresa, tra fedeltà al passato e libera iniziativa personale, insomma tra l’ordine della vita e del mondo dati, e l’ethos del trascendimento della vita nell’azione che conferisce valore. Tale ethos non va frainteso con una fuga dal mondo e dalla situazione in un campo di valori idealmente eterni e sovrastorici, ma come trascendimento nel mondo, in cui qualsiasi opera dell’uomo si inserisce testimoniando con la propria presenza l’avvenuta valorizzazione: in questo senso si può dire che le azioni e le opere compiute acquisiscano permanenza e autonomia, in quanto iscrizione nel mondo di un’intenzione valorizzatrice, concrezione insieme di slancio e condizioni ambientali. Il trascendimento della datità non si attua, come è chiaro, in un’unica direzione, ma in molteplici e sempre diverse, per cui nessuna può assolutizzarsi a danno delle altre. Obiettivo della vita culturale e della società è quello di essere un “esorcismo solenne”, di scongiurare la “nuda crisi” senza recupero attuando misure di controllo e prevenzione, di integrazione dei momenti critici dell’esistenza, in cui più forte è il pericolo di smarrimento, in un ordine stabilito e rassicurante: in altre parole, la fine del mondo come rischio radicale del nulla della presenza viene trasformata nella fine di un mondo, passando dal crollo esistenziale ad apocalissi con escaton o palingenesi, o comunque a passaggi al nuovo. In particolare, l’autore si sofferma sull’analisi della concezione apocalittica cristiana, come si è sviluppata dall’originaria predicazione di Gesù fino a Giovanni in un vero dramma storico di fondazione. Nel complesso, essa ha apportato due fondamentali modifiche alla concezione della storia: in primo luogo, il progressivo differimento della fine dall’imminenza alla indeterminazione e repentinità per cui soltanto Dio decide il momento, allarga indefinitamente il tempo dedicato all’operabilità umana, senza chiuderla in una passiva attesa ma anzi incentivandola, con la descrizione del momento finale come tribunale delle azioni compiute. in secondo luogo, la svolta principale del cristianesimo è stata quella di spostare il punto decisivo della storia dalle origini al suo centro, con l’inserimento della cristologia. L’interrogativo che De Martino si pone rispetto alla modernità è se la religione cristiana, che ha svolto un ruolo di primaria importanza in altre epoche storiche, sia ancora una necessità: l’alternativa su cui riflettere è se l’angosciosità della vita possa essere affrontata soltanto entro un piano di salvezza escatologica o se invece non possa essere affrontata con valori e mezzi storici, e con la piena consapevolezza dell’integrale umanità della storia. La soluzione si trova nella costruzione di un umanesimo moderno che riconosca come punto di partenza, e non di arrivo, la dispersione delle culture e degli etne, e attraverso il confronto etnografico si ponga l’obiettivo dell’unificazione culturale dell’umanità. Nell’ambito di tale compito, l’uomo moderno deve essere capace di incontrare e raggiungere l’altro anche senza l’aiuto di Cristo come mediatore, senza doverlo fare in nome di Dio o di qualsiasi suo surrogato, percorrendo una via più breve e appellandosi alle immagini concrete dei volti umani, e provando per essi un doveroso senso di responsabilità.
https://www.filosofico.net/demartino.htm
Nessun commento:
Posta un commento