La crisi che viviamo, avanti tutto di civiltà,
ha in qualche misura svelato la reale natura di una dottrina
ideologica, quella neoliberale, ai cui assunti di fondo la Sinistra, in
particolare quella europea, è stata subalterna culturalmente prima
ancora che politicamente. Cosa ritiene ci sia stato alla base di questo
pressoché totale appiattimento? Come si spiega il suo deficit di
autonomia intellettuale, la sua incapacità di articolare una lettura propria della storia recente?
Nadia Urbinati: Penso
che la ragione di fondo sia depositata nel marxismo, che è figlio del
liberalismo (non solo dell’idealismo tedesco). Ha una radice comune con
quella parte della dottrina liberale che si è materializzata nella
dottrina economica. L’economicismo e la considerazione della dimensione
politica come strumentale rispetto a quella economica è comune tanto a
quello che oggi viene chiamato neoliberalismo quanto al marxismo. Come
spiega molto chiaramente Carlo Marx nel testo del 1859, “l’introduzione
all’Economia e politica”, Adam Smith, quella parte del pensiero di Locke
che definisce tutta la libertà a partire dal diritto di proprietà e che
poi distingue valore d’uso e valore di scambio, è non meno importante
per comprendere il materialismo storico del lascito della Rivoluzione
francese. È possibile dire che alle origini dell’incapacità di elaborare
un linguaggio politico autonomo da parte della sinistra ci sia la
storia della sinistra medesima, che è radicata all’interno di un nucleo
economicista, realista e che può suggerire di ritenere il pensiero
normativo come una forma di moralismo o idealismo stantio. Intendiamo
per pensiero politico normativo quello che riconosce alla dimensione
pubblica del vivere civile o alla nostra identità politica un valore di
principio, che si esprime nei diritti fondamentali e nella libertà
politica, rispetto ai quali l’interesse economico, individuale o di
classe, può avere preminenza. L’assenza di questa base di principi
politici autonomi rende il pensiero della sinistra un pensiero debole
quando i suoi referenti sociali scompaiono. Fino a quando vi erano
classi organizzate, come per esempio nell’età fordista o della grande
fabbrica che riuniva un esercito organizzato di proletari, il pensiero
della sinistra si è espresso con forza e la sua capacità di attrattiva
politica è stata notevole. Ma tolta quella base organizzata, che cosa
resta del pensiero emancipatore se non quella base economicista che lo
avvicina al pensiero liberale? Non c’è più una visione alternativa,
dissociata dalle classi. Anche questo spiega perché oggi la sinistra
tradizionale sia priva di un pensiero autonomo dall’economicismo
liberale. Decadute le classi, l’elemento di distinzione della sinistra è
venuto meno. La sinistra marxista, figlia del pensiero economico
liberale, si è invece tenuta a grande distanza dal liberalismo politico,
quella dei diritti (cioè l’altro Locke, per riallacciarsi al discorso
che facevamo prima). Ma è dal liberalismo politico e dei diritti che
deriva una concezione democratica, il cui carattere saliente non è
strumentale (ovvero espressione degli interessi economici), ma
fondamentalmente autonomo. È su questo punto del resto che si è
consumata la frattura con il pensiero di Carlo Rosselli e del socialismo
liberale: è stato grazie a questo pensiero coraggioso e radicale (le
cui origini sono da situarsi nell’ideale emancipatore svilippatosi nel
corso delle discussioni sul pensiero di Kant, a partire dalla fine
dell’Ottocento) che la sinistra è riuscita a trovare un suo linguaggio
politico e a contribuire alla trasformazione democratica delle nostre
società.
A distanza di almeno mezzo secolo, torna di grande attualità
il tema della definizione del Sovrano. Il popolo sembra esserlo ormai
solo sul piano giuridico-costituzionale formale, ma percepisce la sua
effettiva impotenza, come testimonia la sempre più scarsa partecipazione
al voto in gran parte dell’Occidente e il suo crescente disinteresse
verso la vita pubblica. Quale chiave interpretativa propone di
utilizzare in riferimento a questo tipo di processo? In quale senso sono
oggi rivolti i reali rapporti di potere nelle società occidentali?
Nadia Urbinati: Come
cercherò di sostenere, a me sembra che la domanda precedente si connetta
direttamente a questa. Intendere il popolo come fondamento
giuridico-formale dell’ordine politico è la condizione indispensabile
per avere una democrazia costituzionale e rappresentativa; il popolo di
cittadini portatori di diritti sta al centro del sistema politico ed è
la base della legittimità delle decisioni. Senza un popolo di cittadini
uguali, sarebbero molto probabilmente i gruppi sociali ed economici a
determinate le scelte. Non dimentichiamo quindi che la concezione di
popolo come soggetto sovrano è stata costruita in alternativa a una
società strutturata per corporazioni o ceti e in nome di una visione
della cittadinanza come condizione contraria a quella basata sulla
mediazione di interessi organizzati. Alla base c’è il cittadino uguale
in potere politico (una testa/un voto) e solo in base a questo
fondamento normativo può essere ammesso fare accordi su questioni
specifiche tra gruppi organizzati. E’ evidente che la democrazia
rappresentativa non è indifferente alla condizione in cui i cittadini
vivono, e la cittadinanza non è un’astrazione che fluttua su un mondo
sociale autonomo.
Occorre che ci sia una corrispondenza
giuridica almeno tra la dimensione politica e quella sociale. Non una
corrispondenza deterministica, ma una corrispondenza di principi
normativi (i diritti) che devono poter innervare ogni componente della
società, dalla sfera privata o della vita famigliare a quella sociale ed
economica. In una società nella quale non governano più strutture
organizzate degli interessi, può facilmente succedere che coloro, i più
numerosi, che sono la parte socialmente più debole siano anche privi di
potere politico. Come superare la debolezza di potere senza violare il
principio di eguale cittadinanza? Rispetto agli interessi organizzati
dei pochi, i cittadini singoli sono indubbiamente impotenti. Quando
questa impotenza cresce oltremisura, come succede in questo nostro
tempo, allora può svilupparsi il populismo, ovvero una nuova forma di
aggregazione dei molti, non più dentro i partiti, ma dentro una visione
di Popolo che ingloba i “molti” senza potere opponendoli ai “pochi”
organizzati o potenti. Dobbiamo comprendere l’esigenza oggi espressa da
alcuni studiosi e leader politici di creare una forza organizzativa
alternativa ai partiti tradizionali e quindi di fare, come ha scritto
Ernesto Laclau, un uso emancipatore del popolo. Ma dubito che questo sia
desiderabile. Quando questa unità di popolo si fa governo, infatti, c’è
da aspettarsi che riprodurrà tutti i problemi che tradizionalmente,
sopratutto in Europa occidentale, ha provocato il nazionalismo – perché
nei paesi europei il “noi” sul quale è sorta la democrazia
costituzionale, è la nazione. D’altro canto, però, i populisti non hanno
tutti i torti a sostenere che il popolo, senza referenti organizzativi,
rischia di essere una pura finzione giuridica. Il fatto che i cittadini
si astengano dal voto, oltre a essere un segno in qualche caso di
reazione negativa nei confronti dei partiti esistenti (come è stato
nelle elezioni regionali in Emilia-Romagna nell’autunno del 2014 e poi
in quelle in altre regioni italiane del giugno 2015), prova l’esistenza
di un “senso di futilità nell’andare a votare”. Penso però che la
risposta a una condizione di debilitazione della volontà politica
dovrebbe essere, invece che adagiarsi su un’idea di democrazia
minimalista e schumpeteriana (a contare sono i voti dati e votare
significa delegare a una classe politica tutto il fare), costruire una
visione di principio delle regole del gioco democratico. Curarsi delle
procedure, ovvero del voto, della partecipazione al voto, è parte delle
regole non un’opzione. La dimensione delle regole e delle procedure è
quindi tutt’altro che formale; è molto ricca, e va ben al di là
dell’apporre una croce su un simbolo di una scheda elettorale. A questa
dimensione politica partecipano a pieno titolo i cittadini con le loro
associazioni e i partiti. I partiti sono strumenti essenziali delle
regole del gioco e per questo dovrebbero godere di finanziamenti
pubblici. E là dove essi vengono finanziati con risorse private (come
negli Stati Uniti) il diritto di voto perde di valore, poiché i
cittadini hanno ragione di pensare che comunque le scelte politiche
siano condizionate da costanti esterne alle regole del gioco. Occorre
dunque prendersi cura, come dicevamo, dell’intera sfera del voto e delle
procedure, se si vuole davvero mantenere in salute la democrazia.
In questo discorso rientra a pieno
la crisi della democrazia in occidente. Le pongo una domanda più
specifica: nel corso di tale crisi, in cui i diritti sociali sono ormai
sotto attacco da decenni e quelli politici iniziano de facto a perdere
di fondamento, quale ruolo giocano le due opposte facce della medaglia
neoliberale, populismo e tecnocrazia? Possiamo definirli in qualche modo
dei sintomi del divorzio tra capitalismo e democrazia?
Nadia Urbinati: Proprio
di questo ho parlato nel mio libro Democrazia sfigurata. Dobbiamo
pensare alla democrazia come a un termine contestato, non univoco perché
denota sia un sistema politico che una forma d’essere della
partecipazione; ha cioè due gambe, istituzionale e procedurale l’una,
formativa dell’opinione e del giudizio politico l’altra. Se queste due
gambe non si sostengono l’un l’altra (come quando il voto diviene mero
esercizio di delega, non dando anche la capacità di intervenire sugli
eletti e di controllare il lavoro della maggioranza esprimendosi anche
attraverso una opposizione non impotente) è evidente che la democrazia
si traduce in diritto di voto per eleggere un’oligarchia, con scarsa o
nulla possibilità di controllare quel che i rappresentanti fanno, poiché
i mezzi di informazione e di formazione delle opinioni diventano essi
stessi parti del gioco politico, come del resto succede regolarmente in
Italia. Questo non è solo il segno della crisi del rapporto tra
capitalismo e lavoro, ma anche di un mutamento di identità della
democrazia rappresentativa, fino ad ora strutturatasi grazie ai partiti.
Occorre forse imparare a ragionare con altri canoni, che non sono più
quelli del socialismo e del liberalismo – i quali dopo tutto
consideravano la democrazia come un mero riflesso politico degli
interessi sociali, un metodo di decisione a maggioranza mediante il
quale le parti sociali facevano le loro politiche. Occorre dare
autonomia alla democrazia, sottolinearne il principio egualitario che la
anima e in relazione ad esso cercare di capire le sue diverse
espressioni, siano esse populiste o come deliberazione dei “competenti” e
dei tecnocratici con il sostegno elettorale dei cittadini. Questi –
populismo e tecnocrazia – sono fenomeni correlati, e solo apparentemente
alternativi tra loro. Populismo e tecnocrazia sono due reazioni a un
declino di legittimità d’opinione di cui soffre la democrazia
rappresentativa oggi, alla fine dell’epoca segnata dal compromesso
capitale-lavoro gestito da grandi organizzazioni politiche e sindacali
di massa. La crisi dei partiti e la crisi della democrazia è andata di
pari passo con la fine del capitalismo fordista o industriale. E si
esprime con populismo e tecnocrazia, due facce della stessa medaglia,
che esaltano o contestano il principio dell’eguaglianza politica: nel
caso del populismo perché interpreta l’eguaglianza come identità del
corpo popolare unificato da un’ideologia forte e un leader che la
incarna, e nel caso della tecnocrazia perché depotenzia l’eguaglianza
del suffragio rendendola una delega in bianco al governo dei pochi,
presentati spesso come competenti.
In un libro di pochi anni fa, “Liberi e uguali”,
lei distingue tra le diverse accezioni di individualismo. A suo avviso
quali sono i principali elementi degenerativi che innescano il passaggio
dall’individualismo democratico descritto da Tocqueville
all’individualismo egoista e indifferente verso il destino comune che
ben conosciamo?
Nadia Urbinati: L’individualismo
fondato sull’interesse economico o proprietario è il più semplice.
Emerge spontaneamente da una società basata sul libero mercato e il
calcolo costi-benefici. Fin da bambini impariamo a calcolare come
realizzare il massimo per noi a scapito degli altri. È un principio che
anima la concorrenza, la competizione e che plasma la nostra
personalità. Gramsci parlerebbe a questo proposito di egemonia: la
formazione di una morale privata funzionale a un determinato tipo di
società.
Tuttavia, l’individualismo non si riduce
a individualismo economico ed è anche un principio positivo. La
democrazia è basata su di esso perché presume che a ciascuno sia chiesto
il consenso ragionato. Essa non presume masse indifferenziate. Per fare
un esempio: la repubblica ateniese classica divenne una democrazia
quando i singoli cittadini che si recavano all’Assemblea poterono votare
uno ad uno e avere i loro voti contati secondo regola di maggioranza. A
Sparta, al contrario, il popolo era interpellato come massa e le
decisioni venivano prese sulla base di un consenso urlato e
indifferenziato con dei giudici di gara che cercavano di interpretare
l’intensità dell’urlo per il “si” o il “no”. Ma il principio di
maggioranza acquistò autorevolezza quando venne adattato alla conta dei
voti: l’aritmetica risolse il problema del dissenso perché i numeri non
sono interpretazioni individuali o sensoriali di intensità ma calcolo di
quantità. L’individualismo – ogni voto vale uno – è fondamentale in
democrazia. L’individuo della democrazia non è un atomo identico agli
altri e chiuso nel suo interesse, ma è una persona che si correla
necessariamente agli altri, in primo luogo per confrontare idee e
convinzioni, per costruire strategie comuni, per convincere e per
associarsi. L’associazione presuppone individui uguali che
individualmente e volontariamente decidono di fare un lavoro comune.
Dunque è un individuo che va oltre sé, ma non per negarsi bensì per
realizzarsi. Perché questo ci sia, è necessaria una conseguente
organizzazione giuridica della società – una costituzione e un ordine
della legge basato sul principio di eguaglianza – e poi anche una vita
socio-economica non in contraddizione con la regola dell’eguaglianza
politica. È qui che si pone il problema della disuguaglianza. A troppi è
preclusa oggi la possibilità di sviluppare le proprie potenzialità
individuali e democratiche in un quadro di regole condivise. È
insopportabile per chi nutre convinzioni autenticamente democratiche che
il destino dei singoli sia determinato dal caso delle condizioni di
nascita, dal fatto di essere nati in una famiglia o una regione del
Paese. Una democrazia che accetta questo stato deterministico di cose è
una democrazia insoddisfacente.
È noto il monito che Sen ha lanciato
ormai anni fa all’economia, quello cioè di non trasformarsi da “scienza
sociale” in “scienza della natura”. Purtroppo, ciò è largamente
avvenuto, al punto che ogni aspetto della vita sociale delle persone è
ormai insidiato dalla logica di mercato. Quali tratti deve avere una
controffensiva culturale e politica adeguata, che sedimenti una
antropologia più “umana” e capace di ridare valore e dignità alla persona?
Nadia Urbinati: Sono
convinta che Sen abbia compreso una delle ragioni per cui oggi noi ci
troviamo a parlare solo della nostra impotenza e della nostra incapacità
di risolvere i problemi di ordine generale da cui siamo afflitti. Si
tratta appunto della trasformazione della scienza economica da scienza
umana a scienza della natura. Questa idea affonda le sue radici nel
XVIII e XIX secolo. La si associa erroneamente a Adam Smith, il quale
era invece ben consapevole tanto della dimensione umana della scienza
economica, quanto del fatto che l’uomo economico fosse una pura
astrazione. Smith usava lo schema argomentativo del “come se”: l’homo oeconomicus
era per lui una funzione ipotetica necessaria per comprendere come
funziona la relazione tra interessi e bisogni. Smith attaccò i monopoli –
di casta, ceto o trasmissione ereditaria, o militare – e comprese che
l’apertura allo scambio e alla logica dell’interesse poteva scardinare
poteri sociali secolari. La scienza economica era per il filosofo Smith
parte della filosofia morale, legata alla teoria dei sentimenti che egli
aveva analizzato nella fenomenologia della simpatia, del reciproco
adattamento che gli individui mettono in moto quando interagiscono. La
simpatia funzionava nel suo sistema come una forza gravitazionale,
frutto del bisogno individuale di vivere bene tra i suoi simili. La
scienza economica contemporanea è una tecnica del mercato finanziario
fatta di algoritmi; la psicologia, lo studio delle emozioni, è
irrilevante.
Ciò detto, io non sono un’esperta del
“cosa fare”, tuttavia credo che la battaglia contro la
finanziarizzazione della politica e dell’economia debba cominciare dalla
formazione, dalla scuola e l’università. Occorre ricomprendere il
valore delle scienze umane e recuperare anche dal punto di vista della
cultura specialistica il valore dell’umanesimo. E ciò va fatto in
termini di sviluppo delle capacità critiche e di formazione della
personalità nel suo complesso. Anche le nostre scuole sono vittime del
nozionismo e del tecnicismo della riuscita. Dare strumenti tecnici senza
sviluppare la capacità di dubitare, di farsi domande su ciò che si
studia e si legge significa impoverire la formazione, creare docili
esecutori. La formazione è aspetto essenziale dell’identità delle nostre
società troppo ignorato.
La declinazione del rapporto tra libertà
e uguaglianza sembra essere tutt’oggi uno dei nodi fondamentali da
affrontare. Pensa che la ricostruzione di una cultura politica alla cui
base stia un rapporto equilibrato tra libertà e uguaglianza possa in qualche modo venire incontro alla necessità della sinistra di dotarsi di un nuovo mito di mobilitazione di massa?
Nadia Urbinati: Penso
di sì. Ad oggi non abbiamo altre soluzioni altrettanto valide. Per
quanto riguarda l’Italia, disponiamo di un linguaggio politico che è
quello della nostra Costituzione. Di lì dovremmo ripartire, anche e
sopratutto per riscoprire e rilanciare la dignità della cittadinanza.
L’Articolo 3 è molto chiaro: l’uguaglianza non è un valore astratto,
bensì una relazione tra persone che non sono uguali, che sono anzi
diverse in moltissimi sensi, ma che quando si tratta di riferirsi ai
poteri dello Stato, alle capacità individuali e al rispetto della
persona, devono essere trattate come uguali. Il “come se” è fondamentale
perché adottare una prospettiva mentale che vede nell’altro non
semplicemente una entità socio-economica o religiosa o culturale, ma un
soggetto morale e politico che ha sue specifiche potenzialità. Per
comprendere il senso dell’individualismo democratico occorre una cultura
politica coerente. Faccio un esempio relativo all’Italia: è
contraddittorio proclamare questi principi e poi promuovere una riforma
della scuola come quella detta della “buona scuola”. Questa è
palesemente indirizzata a rompere l’uguaglianza di opportunità e di
capacità dei ragazzi di formare sé stessi indipendentemente dalle
condizioni familiari e territoriali in cui per caso sono venuti al mondo
o vivono. È una contraddizione. Esiste una coerente correlazione tra
l’analisi critica e la definizione dei programmi di riforma. Senza
questo collegamento, non avremmo che uomini politici che stanno nel
mercato dei voti ovvero del consenso così come i piazzisti stanno nel
mercato della compravendita dei beni, presentando sé stessi in vista di
un unico scopo, quello di vincere, lasciando in secondo piano il
contenuto: vincere per fare che cosa? Interpretare la democrazia come un
gioco elettoralistico significa far transitare il consenso dai
programmi – le cosa da fare o non fare – ai leader. Nella visione
plebiscitaria di democrazia l’importante è che il capo vinca. A lui è
poi demandato di prendere le decisioni, rispetto alle quale i cittadini
non hanno voce. Del resto, se si vota ogni cinque anni perché doverli
ascoltare nel corso dell’operato? Il paradosso di una democrazia
plebiscitaria è che affinché i cittadini abbiamo voce occorrerebbe
prevedere una permanente campagna elettorale – ma questo, come si
intuisce, equivarrebbe negare la democrazia rappresentativa. Affinché in
una democrazia elettorale la funzione dei cittadini non si riduca a
quella di elettori è essenziale che i partiti siano retti su programmi e
non identificati con un leader vincente. Qui sta la differenza tra un
plebiscito dell’audience e una democrazia rappresentativa.
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