Come capire il rapporto tra lingua e cultura.
Quando si parla di pragmatica tocchiamo elementi molto importanti delle persone perché stiamo parlando di lingua e cultura. Riprendendo i lavori di Bettoni (2006) in questo articolo sappiamo come l'esatta natura di questo rapporto tra la lingua e la cultura rimane difficile da determinare. Possiamo usare la definizione molto ampia di Williams ( 1981):
" la cultura è l'intero modo di vivere di un popolo e la lingua è sicuramente parte della cultura. Quindi cultura e lingua hanno molti punti comuni, quali ad esempio:
- non-natura
- conoscenza
-comunicazione
Né la cultura né la lingua fanno parte della nostra eredità biologica. Quindi sono non-naturali ma acquisiti e pertanto sono il risultato dell'apprendimento e quindi sono una conoscenza. La cultura e la lingua sono due realtà mentali: l'organizzazione di queste conoscenze consente di percepire e di metterle in relazione tra di loro. Pertanto colui che vive la cultura e parla la lingua oltre a conoscere le cose, condivide il modo di pensare, di interpretare il mondo, di fare inferenze e predizioni. Come realtà mentali fatte da segni appresi e trasmessi sono a tutti gli effetti " comunicazione".
La lingua e la cultura consentono di stabilire relazioni simboliche tra individui e collettività, tra le situazioni e gli oggetti.
Tuttavia lingua e cultura non sono la stessa cosa: ad esempio il rubinetto dell'acqua e la tempesta di Giorgione sono due oggetti culturali, mentre il sorriso, il saluto, l'inchino sono due comportamenti culturali. In questi casi la lingua non c'entra mentre quando intendiamo la cultura come pratica cognitiva-interpretativa del reale, la lingua occupa un posto privilegiato perché è il migliore sistema di classificazione e comunicazione dell'esperienza di cui disponiamo. Per studiare il nesso tra lingua e cultura bisogna separarle e operazionalizzare queste entità in modo da vedere se si possono collegare specifici elementi culturali con specifici elementi linguistici in sintonia con il motto " vivere la cultura e parlare la lingua".
La cultura
La cultura trova nella definizione di Tylor ( 1871) una definizione ampia molto utile per il nostro lavoro:
" la cultura, o civiltà, nel senso etnografico, è quell'insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l'arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall'uomo come membro di una società.
Nello studio della cultura ha sempre avuto grande importanza la dimensione comparativa così come il livello dell'analisi, vale a dire analisi micro o macro. Solitamente il livello micro si accompagna con il metodo qualitativo mentre il piano macro si accompagna con il metodo quantitativo.
Il concetto di cultura come ci ricorda Fabietti ( 2004) è diventato molto controverso ma resta utile se viene usato in modo dinamico, aperto, negoziale, inventivo in questo periodo di grossa mobilità e dove i territori culturali non sono ben definiti.
In ambito interculturale, l'approccio comparativo è senz'altro il più idoneo così come l'approccio quantitativo per capire degli orientamenti generali che caratterizzano intere nazioni.
Per questi motivi, Bettoni (2006) sceglie il modello di Hofstede (2001) in quanto operazionalizza alcune dimensioni culturali su vasta scala. Questo deve aiutarci ad abbinare fatti linguistici con elementi culturali. Per Hofstede (2001) la cultura viene intesa come programmazione collettiva della mente, dove mente è intesa come:
- testa che pensa
-cuore che sente
- mani che agiscono
Con le rispettive conseguenze in termini di credenze, sentimenti e di abilità. La cultura non è osservabile direttamente ma è possibile osservare le manifestazioni, i comportamenti, le pratiche di vita e da questi risalire al programma. Al centro del modello di Hofstede troviamo i valori, i quali hanno sempre carattere polare, positivo o negativo, bene o male, bello o brutto, sicurezza o pericolosità, razionalità o irrazionalità, logico o paradossale.
Questi valori hanno due proprietà:
- intensità ( forza del valore nella nostra vita)
- direzione ( orientamento delle nostre azioni)
Se aderiamo ad un valore, il nostro coinvolgimento può essere maggiore o minore ( questione di intensità) e il risultato può essere buono o cattivo ( questione di direzione). Per esempio, per alcuni o molti possedere molti soldi può essere molto importante ( forte intensità) e possederne di più è positivo mentre il contrario è negativo. Per altri può essere tutto il contrario. Inoltre i valori non sono mai isolati ma formano un sistema di valori o gerarchie. Questi valori non vivono sempre in armonia:
- ad esempio, si può aderire al valore di "libertà" e di " uguaglianza" è vivere questo come una contraddizione all'interno del proprio modo ideologico e comportamentale.
Infatti esistono i valori desiderati e i valori desiderabili.
I valori diventano osservabili quando si trasformano in pratiche. Per Hofstede (2001) esistono tre modi per ottenere delle manifestazioni visibili della cultura:
- rituali
- eroi
- simboli
In vicinanza ai valori ritroviamo i rituali, i quali sono attività collettive tecnicamente inutili ma che vengono ritenuti socialmente necessari per legare l'individuo alla collettività. Ad esempio, le feste, le cerimonie, le processioni, le sagre, i mercati rionali, i saluti, le visite tra amici hanno questa funzione.
Il secondo strato è occupato dagli eroi, personaggi veri o immaginari, vivi o morti che hanno delle caratteristiche ambite da quella cultura e diventano dei modelli di comportamenti. Ad esempio: Valentino Rossi, Baggio, Madre Teresa, Papa Francesco, Benigni, Massimo Troisi, Pino Daniele, Lucio Battisti, Mina, Celentano.
Più lontano troviamo i simboli, le parole, i gesti, le figure e gli oggetti i cui significati spesso complessi sono riconosciuti come tali solo da chi condivide la cultura. Gli slogan, gli abiti che indossiamo sono tutti esempi di simboli.Questi si trovano all'esterno perché possono cambiare più rapidamente. Questi simboli, eroi, riti sono visibili ma il loro significato culturale è visibile solo all'interno di una data cultura. La stabilità di questa cultura è molto forte nonostante i cambiamenti siano possibili. Da questa stabilità nasceranno le istituzioni di una data cultura come ad esempio la famiglia, i sistemi educativi, la religione, i sistemi politici e la legislazione. Queste istituzioni tendono a rafforzare le norme sociali ( sistema di valori) e le condizioni ecologiche ( naturali) che hanno portato alla loro formazione ( la storia, demografia, alimentazione, economia, igiene, urbanizzazione, tecnologia).
Ad esempio, l'Italia del secolo scorso ha vissuto per un verso il passaggio dal fascismo alla monarchia per approdare alla Repubblica. Questo ha portato radicali cambiamenti istituzionali da un lato ma da un altro verso è cambiato poco nelle norme sociali della vita quotidiana. Questo modello trova la sua stabilità nella storia: " la cultura come programmazione della mente è anche cristalizzazione della storia nella testa, nel cuore e nelle mani della presente generazione ( Hofstede, 2001). Nel tempo sarà possibile cambiare ma individualmente sono i comportamenti a modificarsi e non tanto i valori. Per offrire un esempio di operazionalizzazione vediamo come Hofstede (2001) abbia identificato cinque dimensioni lungo le quali si dispongono le culture in modo importante.
Queste dimensioni culturali corrispondono ai maggiori problemi che ogni società deve affrontare ma a cui ognuna dà risposte diverse:
- La distanza dal potere, ossia viene considerata quanto i membri meno potenti di una organizzazione, un ente o istituzione accettano e si aspettano che il potere sia distribuito in modo diseguale; vengono così messi a fuoco il grado di diseguaglianza con cui funziona una data società e la dipendenza emotiva dalle persone più potenti.
- L'evitamento dell'incertezza, ossia quella dimensione culturale che considera quanto una cultura programma nei suoi membri la tolleranza nei confronti di situazioni non strutturate, nuove sconosciute, diverse, imprevedibili, viene in questo modo individuato il grado di controllo che una società cerca di esercitare su quanto è incontrollabile.
- L'individualismo che al contrario del collettivismo, considera il grado in cui l'individuo sa badare a se stesso o rimane integrato nel gruppo costituito solitamente dalla famiglia.
- la maschilità che al contrario della femminilità considera la distribuzione tra i due generi dei ruoli emotivi; vengono così opposte società maschili di tipo " dure" a società femminili " tenere".
- l'orientamento temporale come dimensione culturale considera quanto a lungo una cultura programma i propri membri ad accettare il differimento della gratificazione dei propri bisogni materiali, sociali ed emotivi.
Da questi lavori sono emersi degli elementi interessanti sull'asse della dimensione individualismo-collettivismo, in modo particolare in riferimento alle culture più individualiste si ritrovano queste caratteristiche:
- riguardo alla personalità: la normalità sta nel confronto piuttosto che nella ricerca dell'armonia e si è incoraggiati a esprimere la felicità, piuttosto che la tristezza.
- in famiglia: i matrimoni sono basati sull'amore piuttosto che concordati e si ricerca la privacy piuttosto che la compagnia.
- a scuola: l'iniziativa individuale viene incoraggiata e mai scoraggiata, e lo scopo dell'istruzione è imparare a imparare piuttosto che imparare a fare.
In generale si mette l'accento sul divertimento che sul dovere, il senso di colpa piuttosto che il senso di vergogna.
Una variabile molto importante rimane la ricchezza di una nazione per valutare con molta attenzione questi dati.
Prima di finire con questo argomento della cultura sarà importante tenere presente tre questioni sempre alla mente, ossia l'etnocentrismo, il pregiudizio, lo stereotipo.
Infatti quando osserviamo una cultura diversa non possiamo che osservarla etnocentricamente dal punto di vista della nostra, impelagandoci quindi in un implicito giudizio sull'altra cultura. Solo sospendendo il giudizio fino a quando le differenze culturali non sono state capite nelle loro radici e nelle loro conseguenze possiamo evitare in parte il pregiudizio etnocentrico. Inoltre è molto rilevante esporre i propri risultati al vaglio di altri studiosi con altri sistemi valoriali e di essere il più espliciti possibili sul proprio sistema di valori.
Un altro rischio in agguato è lo stereotipo con il suo processo di attribuzione delle stesse caratteristiche a tutti i membri di una comunità. Infatti lo studio degli stereotipi, propri e degli altri rientra pienamente nello studio di una cultura ( Mazzara, 1997).
La lingua
La lingua è il simbolo più visibile e potente di una cultura. Quando studiamo una lingua possiamo analizzare la forma e le sue funzioni. Quando parliamo di forme intendiamo i suoni, le parole e le strutture grammaticali. Per le funzioni della lingua possiamo dire che la lingua serve per:
- rappresentare la realtà
- comunicare
- esprimere le emozioni, sentimenti, atteggiamenti, passioni
- stabilire e mantenere il contatto interpersonale
- compiere delle azioni
- manifestare la propria identità
Con la funzione referenziale ci rappresentiamo nella mente, discriminiamo, classifichiamo, concettualizziamo la realtà. Le parole sono il contenuto del nostro messaggio, detto " referente" perché fa riferimento ad entità extra-linguistiche. Per esempio, linguisticamente e mentalmente esistono le sirene o Nettuno ma non significa che esistono nella realtà. Il sole, la spiaggia, il mare sono tutte parole che rappresentano un'elaborazione concettuale delle nostre percezioni.
Con la funzione comunicativa trasmettiamo agli altri il contenuto informativo del messaggio. Infatti secondo Wittgenstein ( 1967) la lingua è niente di più né di meno dell'uso cui è destinata.
Tra queste due funzioni oggi esiste un maggiore equilibrio tra gli studiosi del linguaggio in termini di adesione a queste due funzioni. Inoltre in questo secolo si sono messe in luce le altre funzioni della lingua. Ad esempio nella funzione espressiva, la lingua viene usata per manifestare emozioni, sentimenti, passioni e atteggiamenti. Oggi molti linguisti ritengono che tramite l'espressione fonica delle emozioni il parlante manifesti una parte importante di sé e dei contenuti del suo atto comunicativo.
La funzione fatica della lingua viene usata per esprimere le relazioni sociali, per stabilire o mantenere viva la comunione di intenti, per segnalare le buone intenzioni nei confronti dell'interlocutore. Esempi classici di uso fatico della lingua sono i convenevoli, i saluti, i ringraziamenti, i commenti sul tempo o i complimenti stereotipati. Anche i pettegolezzi molto routinizzati rientrano in questa funzione fatica per il semplice fatto di essere pronunciati.
Lo studio della funzione fatica consente di analizzare il contesto di enunciazione delle parole.
Con la funzione performativa tentiamo di esercitare linguisticamente il nostro controllo sulla realtà. Gli esempi più chiari sono le formule recitate durante i riti come ad esempio:
" questo è il mio corpo" pronunciato in chiesa, " in nome del popolo italiano" da parte del giudice prima di una sentenza; " in nome del magnifico rettore"; il " sì" pronunciato durante il matrimonio è un atto che cambia identità al parlante. Questa funzione è stata messa in rilievo da Austin con la sua tesi che " dire è sempre fare" perché quando parliamo compiamo sempre delle azioni, ossia informiamo, minacciamo, chiediamo, ci scusiamo, scherziamo, insultiamo, ci teniamo in contatto. La lingua come azione è il cuore di questa funzione.
La lingua come forma di identità serve per rivelare agli altri chi siamo individualmente e a che gruppo apparteniamo socialmente. Quando parliamo offriamo molte informazioni su di noi: il sesso e l'età nella nostra voce, le parole scelte, la pronuncia rivela la provenienza regionale, l'appartenenza etnica, lo status sociale e il ruolo che vogliamo interpretare in generale.
Insomma, la lingua funziona come mezzo per rappresentare, comunicare, esprimere, contattare, agire ed identificare.
Lingua e pensiero
Lingua e pensiero rappresentano un nesso molto discusso soprattutto alla luce di due profonde tendenze filosofiche contrapposte come quelle dell'universalismo e del relativismo.
Da una parte abbiamo l'universalismo di stampo illuminista ( Descartes, Spinoza, Leibniz, Kant) in cui si sostiene che per dote innate ragioniamo tutti allo stesso modo e che il pensiero informa la lingua. Dall'altra parte ritroviamo il relativismo di stampo romantico che seguendo i filosofi inglesi (Locke, Berkeley, Hume) negano l'innatismo delle categorie mentali e sostengono che la conoscenza viene acquisita tramite l'esperienza. Pertanto se l'esperienza è diversa sarà diverso il modo di pensare. Questo relativismo linguistico ha trovato espressione nelle tesi di Sapir e Whorf ( 1949, 1956).
Per Sapir (1949) il mondo reale è in larga misura costruito sulle abitudini linguistiche del gruppo. Per Whorf (1956) il principio della relatività linguistica si inscrive nelle grammatiche dei parlanti, i quali sono indirizzati verso tipi diversi di osservazioni e valutazioni diverse di atti di osservazione molto simili. Queste osservazioni spingono ad interpretazioni diverse del mondo. Questa posizione relativista è molto diffusa in ambito antropologico, sociologico, pragmatica.
Queste due posizioni si contrappongono in modo radicale in termini ideologici. Positivamente, l'universalismo garantisce uguaglianza e rispetta le razze, culture e lingue glissando sulle differenze.
Negativamente, il retaggio razionalista vede la differenza in senso "diacronico", vale a dire che le differenze vengono colmate con il tempo. Per quanto riguarda il relativismo, positivamente risulta rispettoso delle differenze mentre negativamente rischia l'incomunicabilità perché se le culture intendono diversamente come possono intendersi l'uno con l'altro?
Questi due estremismi sono incapaci di spiegare il reale, ossia da un lato le indubbie differenze culturali e linguistiche, e da un'altra parte il relativismo non vede gli indubbi universalismi condivisi. In sintonia con Kramsch (2004) prevale oggi una versione debole del relativismo poiché pare scontato che:
- la traduzione tra due lingue è possibile anche se le sfumature di alcuni significati vengono perduti.
- numerosi individui multilingui conoscono la propria lingua in modo de-etnicizzato, vale a dire senza essere legati ad una data collettività.
In pratica, la versione debole del relativismo sostiene che solo alcune categorie mentali più generali sono innate, ma che la forma effettiva con cui viene realizzata è il risultato dell'esperienza.
In altri termini possiamo dire che il nesso tra lingua e pensiero esiste ma che la lingua come struttura non determina ma influenza il nostro modo di percepire e categorizzare il mondo.
Tuttavia questo nesso rimane ancora molto inesplorato in senso empirico per capire come e quanta lingua e pensiero interagiscono.
Lingua e identità
Noi parliamo per rivelare agli altri la propria identità intesa come risposta alla domanda: " chi sono io?" La mia identità è chi sono io e risponde alle domande " chi siamo?", che personalità abbiamo? da dove veniamo? che lavoro facciamo? a che gruppo apparteniamo?
L'importanza della lingua si evince come espressione dell'identità quando in un momento di attesa in un ufficio sentiamo dire accanto a noi: " santa pazienza" o " porca vaca". Questi sono tutti indizi verbali per decidere chi sia l'interlocutore sconosciuto presente nello spazio sociale. Nel contesto italiano sono molto rilevanti l'identità geografica ( la provenienza), l'identità etnica ( per coloro che non sono italiani), l'identità sociale ( appartenenza a certi gruppi sociali) e l'identità contestuale ( parliamo in modo diverso se siamo in riunione, al bar o al telefono).
Per Crystal (1997) si può sostenere che le identità basilari sono di due tipi:
" l'identità individuale, idiosincratica della persona e l'identità collettiva, condivisa da un gruppo di individui.
Inoltre va sempre ricordato che l'identità è sempre culturale perché l'identità non etichetta la realtà ma la convenzionalità ( sempre sociale) della realtà. L'identità viene pensata erroneamente come qualcosa che si ha o è mentre secondo Bourdieu ( 1982) è sempre una forma di fare perché viene costruita da chi parla parlando come parla. In aggiunta occorre tenere presente che l'identità è sempre multipla perché abbiamo molti tratti e che nella vita interpretiamo molti ruoli diversi.
E per finire dobbiamo ricordare che l'identità è sempre relativa perché gli altri possono pensare e attribuirmi un'altra identità che non condivido. Tutto questo deve avvenire mantenendo sempre un'identità individuale singolare e coerente dal di dentro per evitare forme di patologie ( Joseph, 2004).
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